Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

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Quel che ci mantiene in vita

Questa è proprio grossa e non l’avevo mai sentita. è un esperimento dell’imperatore Federico II di Svevia. Di lui si dice fosse una persona molto controversa. Per qualcuno era un anticristo per altri era il messia.  Odiava i cristiani e pensava di essere il primo in tutto. Era nato a Jesi che chiamava la mia piccola Betlemme… e quando vide la terra Santa disse: questa è la terra dove scorre latte e miele? Perché non avete mai visto il regno della mia Sicilia. Era uno scienziato che provava in maniera selvaggia a cercare risposte alle sue bizzarre domande.

Per esempio si domandava che lingua parlasse un bambino se non gli venisse insegnata nessuna lingua.

Allora decise di raccogliere un gruppo di bambini appena nati e di affidarli alle cure delle balie alle quali aveva dato il preciso ordine di non rivolgere loro nessuna parola. Quando avrebbero finalmente pronunciato la prima parola in che lingua sarebbe stata?

Il risultato però fu tragico perché i piccoli, chi prima e chi dopo, morirono tutti.

Il latte a quei bambini e le cure necessarie venivano assicurate dalle balie ma l’assenza completa di parole colpì fino alla morte le piccole creature.

Gli esperimenti di Federico II venivano raccontati tra la leggenda e la realtà. Fatto sta che questo esperimento, se fosse veramente accaduto, fa molto pensare.

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La legna per far ardere il fuoco

Nella preghiera le distrazioni sono la legna per far ardere il fuoco. Con questa luminosa risposta un monaco indica il modo con cui stare davanti al Signore nella preghiera. Gli era stato chiesto: ma le mie preghiera valgono ugualmente anche se sono colme di distrazioni?

Prima di tutto bisogna riconoscere la natura e i contenuti delle distrazioni. Spesso sotto le distrazioni si nasconde ciò che veramente uno desidera.

Ci sono distrazioni e distrazioni. Posso essere assillato da un problema che costantemente ritorna nella mente, posso essere interiormente richiamato da una situazione da risolvere. Oppure sono semplicemente abitato da stimoli che rivelano la mia superficialità e perciò la mia incapacità di concentrarmi e di restare raccolto per un po’ di tempo.

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Anziani: problema o risorsa?

La nostra Caritas parrocchiale si sta interrogando sul rapporto della comunità con gli anziani. Lo sta facendo con una domanda precisa: gli anziani sono un problema o una risorsa?

Siccome questo è un tema che ci riguarda inevitabilmente tutti o perché  noi stessi siamo anziani o perché abbiamo tutti delle sorelle o dei fratelli da accompagnare, nonni genitori, zii… vorremmo avvicinarci alla presenza di chi è … nato prima di noi con l’atteggiamento della sensibilità e della cura.

Ci facciamo aiutare da un’opera d’arte che proviamo a contemplare a partire da due domande: cosa significa invecchiare bene? Come è possibile stare veramente vicino agli anziani?

L’opera d’arte è un autoritratto di Rembrandt, il pittore più importante dell’Olanda e uno dei più importanti della produzione artistica mondiale. Nasce a Leida nel 1606 e muore ad Amsterdam nel 1669. La sua pittura è fortemente influenzata da Caravaggio per quanto riguarda il gioco della luce e del realismo. Una cosa impressionante che non può non colpire è che l’olandese ha dipinto in quarant’anni di lavoro un centinaio di autoritratti. Perché? Era un narcisista? Uno che voleva autocelebrarsi? No di certo. La risposta sta nel percorso stesso della sua arte. Rembrandt ha vissuto molte difficoltà per problemi legati alla sua famiglia e all’economia. Eppure ha sempre cercato nell’arte una risposta che lo aiutasse a mantenere accesa la speranza. L’ultimo dei suoi autoritratti, quello che ha dipinto pochi mesi prima di morire, intitolato appunto “Autoritratto all’età di 63 anni” è molto rivelativo.  Nonostante l’ultimo periodo della sua vita sia stato reso molto amaro, oltre che per la tarda età, dalla morte della moglie, del figlio e del suo carissimo amico, nella completa solitudine e precarietà egli dipinge un’apertura fiduciosa alla speranza.

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Nascere di nuovo

Autorizzato veramente a parlare della Pasqua è solo chi nella vita ha fatto l’esperienza di una rinascita.

Chi ha ritrovato nuove motivazioni di vita dopo un grave lutto, e le ha ritrovate al di là delle sue forze, in maniera insperata.

Chi ha incontrato il perdono e l’ha ricevuto senza merito, gratuitamente. Ma anche chi il perdono è riuscito a donarlo regalando a qualcuno da cui ha subito un’offesa o un tradimento una nuova possibilità. Chi è riuscito inspiegabilmente a guarire da un vizio che lo rendeva schiavo ed ha sperimentato un leggero ma profondo senso di libertà.

Chi dopo un lungo periodo di aridità spirituale vede riaccendersi il piccolo lume della passione e scorge un po’ di vita dopo il tenebroso tunnel della noia.

Chi trova ciò che aveva perso, chi ottiene una risposta dopo insistite domande, chi vede la porta aprirsi dopo tanto bussare.

Chi dopo una vita di lamenti e di acidità in modo sorprendente vive il suo giorno di meraviglia e si lascia incantare da piccoli o grandi miracoli.

Chi dopo l’inverno della diffidenza e del sospetto su Dio si vede aprire uno spiraglio di fede e crede e si ricrede.

Chi dopo la tristezza che attanaglia il cuore vede rifiorire un po’ di gioia. Chi dopo tanta delusione finalmente si sente un po’ consolato.

Ogni anno celebriamo la Pasqua per dire con tutto noi stessi questa verità: bisogna nascere di nuovo, come sussurrava Gesù a Nicodemo che di notte cercava di consultare il Signore per rubargli i segreto dell’esistenza. La Pasqua è nascere di nuovo, è lasciare che la vita spalanchi il futuro al di là dei segni di morte.

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Guarda come ti voglio bene!

Spesso lo dico per ridere, in realtà ci credo profondamente. Le vacanze di Pasqua, come quelle di Natale, del resto, sono state istituite affinché, come cristiani, potessimo avere il tempo necessario per partecipare alle funzioni religiose in chiesa. Altrimenti perché ci sono le vacanze? Perché i ragazzi sono stanchi? Perché c’è il bel tempo e bisogna andare ai mari o ai monti? Perché bisogna andare a trovare i parenti nei paesi di origine? Certo tutto vero e bello, ma allora perché non scegliere una settimana diversa dalla Settimana Santa? Ormai è sotto gli occhi di tutti che più nessuno partecipa ai riti sacri della Settimana più importante dell’anno per i cristiani. Non mi stupirebbe se, per il rispetto della laicità, come si tolgono i presepi, i crocifissi, i segni della fede cristiana, si arrivasse a togliere anche i giorni delle vacanze di Pasqua. Sarebbe per lo meno una questione di onestà. Allora insorgerebbero i presunti cristiani come paladini di una fede che … non c’è più e insorgerebbero per dire quanto sia importante salvare le tradizioni, riconoscere le radici della nostra identità, confessare i valori e i principi della nostra società, ecc..

Per quanto mi riguarda, e grazie a Dio, riguarda anche il piccolo resto che partecipa con fedeltà e con fede ai Riti Sacri della Pasqua, la Settimana Santa è davvero speciale.

La Chiesa offre ai suoi figli la ricchezza e la bellezza delle liturgie e rinnova l’appello a ripercorrere le ore decisive della vita di Cristo, le ore della sua morte e risurrezione.

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Con la faccia al muro

L’avvicinarsi della festa di San Giuseppe mi ha riportato alla memoria la figura di una grande santo profondamente devoto a San Giuseppe: Daniele Comboni, il santo missionario nato a Limone sul Garda nel 1831, apostolo della “nigrizia” che considerava la fede come l’arma più potente per restituire agli africani la loro dignità. La strategia di Comboni in sintesi si può ritrovare nel suo slogan: Rigenerare l’Africa con l’Africa.

Ordinato vescovo promosse molte opere missionarie e consapevole che avrebbe avuto bisogno di molte risorse economiche ebbe l’idea di una nomina alquanto originale per la sua congregazione: costituì san Giuseppe come economo generale della sua “impresa”.

In qualunque necessità si rivolgeva a lui, esattamente come un superiore si rivolge all’economo. Questa scelta denota la fiducia cieca che aveva per Giuseppe.

Ci fu un tempo in cui alla porta di Comboni bussavano fornitori arrabbiati per non essere stati ripagati per il loro lavoro. Non sapendo più come fare si mise a pregare San Giuseppe con una preghiera sorprendente: Giuseppe, se non mi mandate il denaro necessario vi metto con la faccia al muro. E voltò la faccia dell’Economo contro il muro, fino a quando non fosse intervenuto.

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Mira il tuo popolo

C’è un canto mariano che quando ero piccolo lo sentivo cantare in chiesa mi suonava un po’ strano. “Mira il tuo popolo”. Mi immaginavo la Madonna che, chiudendo un occhio, prendeva la mira sul popolo. Crescendo ho appreso che il verbo “mira” in spagnolo significa guardare con attenzione, osservare, ammirare ed anche ragionare, considerare. Ci sono due vocaboli che derivano da questa radice: miracolo e meraviglia. Il miracolo, letteralmente, è una cosa meravigliosa, è un evento straordinario che si pone al di fuori delle leggi naturali e che si deve attribuire all’azione di Dio, l’unico che può operare miracoli. Il miracolo è qualcosa di mirabile. La meraviglia è il sentimento di stupore suscitato da una cosa nuova, inattesa e straordinaria. La meraviglia, secondo Platone è la causa della sapienza, della filosofia e della religione. La meraviglia è lasciare che la bellezza riempia gli occhi, la mente e il cuore. Mi vengono in mente le parole di santa Teresa di Lisieaux quando sul suo diario annota queste parole tornando dal suo pellegrinaggio a Roma: non avevo occhi bastanti per ammirare le meraviglie della natura, dell’arte e della fede. Pare che gli uomini di oggi vivano una sorta di deficit della meraviglia. Prima di tutto perché l’uomo di oggi da un po’ tutto per scontato e poi perché tende a sostituire lo stupore con la visione tecnica della realtà: non si riesce più a guardare le cose come segni di una realtà che sta al di là di ciò che si vede e si tocca. Lo sguardo scientifico sostituisce oggi lo sguardo poetico. Affermava Pablo Neruda che meravigliarsi è saper leggere la fiaba che c’è dentro ogni cosa, è amare la vita da dentro e da fuori, reggendone il peso e la leggerezza, è guardare la vastità del mondo e la sua pienezza, è sentirne l’ispirazione fino in fondo, è godere della sua profonda bellezza. Il segreto per essere ancora capaci di meraviglia è di non essere cinici e di non perdere la gioia per le piccole cose, la compagnia fraterna degli altri, un abbraccio, un perdono, un tramonto, il sorriso dei bambini…  Mira il tuo popolo, o bella Signora, che pien di giubilo oggi t’onora. Anch’io festevole corro a’ tuoi piè; o Santa Vergine, prega per me! Chiedere a Maria di “mirare” il popolo significa sicuramente domandarle di guardare il popolo e di aiutarlo, di soccorrerlo. Ma può anche significare: Maria, ammira il tuo popolo, meravigliati, perché esso è mirabile, è un miracolo. In effetti noi, creati ad immagine di Dio, siamo dei prodigi, siamo una meraviglia.

Don Roberto

 



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La tartaruga e la vela

In un libro del liceo ho ritrovato un’immagine che quando ero giovane mi aveva molto colpito e che ora mi colpisce ancora di più. Su di un cartoncino avevo incollato il simbolo di Cosimo de’ Medici, il duca di Firenze e sotto ci avevo scritto lo slogan latino di Augusto l’Imperatore romano: “Festina lente” che tradotto in italiano suona: “Affrettati lentamente”. Cosimo l’aveva scelto questo slogan come emblema della sua flotta navale. La raffigurazione presenta una tartaruga con la vela. I romani invece accompagnavano lo slogan con un altro simbolo e sulle monete coniavano l’ancora con il delfino.

Sembrerebbe una contraddizione: o ci si affretta o si procede lentamente. Un conto è fare le cose di fretta e un conto è farle lentamente. Sembra una contraddizione tra velocità e la prudenza. In realtà l’espressione “affrettati lentamente” è un bell’invito per vivere in maniera determinata e per tessere l’elogio della lentezza.

A volte ci affrettiamo nevroticamente e consumiamo tutto ciò che ci arriva a tiro: cibo, relazioni, divertimento, emozioni. Bisognerebbe imparare a vivere con lentezza per gustare meglio ciò che mangiamo, i rapporti con le persone, il nostro tempo libero, le nostre passioni.

D’altra parte è possibile confondere la lentezza con la pigrizia. Ci si muove blandamente senza grinta, preferendo il divano e le comodità. Allora abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia una mossa e ci dica di affrettarci.

Festina lente significa procedere con determinazione e nello stesso tempo con cautela, muoverci spediti senza indugio e insieme ponderare bene i passi da fare.

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Cosa abbiamo di più prezioso?

Nell’atrio d’ingresso della galleria Borghese c’è un gruppo statuario che si riferisce ad una storia estremamente affascinante. La statua rappresenta un cavallo e un cavaliere e la storia si riferisce alla leggenda raccontata dallo storico romano Tito Livio riguardante un certo Marco Curzio.

La leggenda racconta che nel 362 A.C. a Roma si aprì una voragine. Un buco che si allargava sempre di più e che non aveva fondo. Vennero interrogati i sacerdoti i quali interpretarono questa voragine come segno di sventura con la premonizione che il precipizio avrebbe inghiottito l’intera città di Roma a meno che non si fosse gettato nel baratro ciò che  i romani avevano di più prezioso. Tutti incominciarono a pensare all’oro, alle proprietà, ai gioielli… il giovane Marco Curzio considerò invece che ciò di più prezioso che aveva era il… coraggio. Così si gettò nella voragine insieme al suo cavallo, il pericolo per la città di Roma fu scampato e immediatamente la voragine si trasformò in un ameno laghetto.

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I giovani di Cuba e l’adorazione

È venuto a trovarci don Sergio Armentini curato del nostro Oratorio dal 2009 al 2011, attualmente missionario a Cuba nei villaggi della cittadina Baracoa. Nel racconto della sua testimonianza mi ha colpito in particolare una cosa. Ci ha parlato di molti aspetti, della situazione sociale e politica di Cuba, del desiderio che hanno i giovani di uscire dall’Isola, dell’organizzazione della Parrocchia e della missione, del cibo, della scuola, di come abbia imparato alla svelta a vivere sobriamente facendo a meno di tante cose, di come stia facendo l’esperienza che “essere prete” significa concentrarsi sull’essenziale, ecc…

Sinceramente la cosa che più mi ha colpito è la questione dell’Adorazione Eucaristica. Don Sergio ci racconta che i ragazzi e i giovani sono molto disponibili a pregare, anche per lungo tempo, in silenzio davanti all’Eucarestia e che anzi quella è la forma di preghiera che più prediligono. Perché mi abbia colpito questa cosa è subito detto:  da noi succede esattamente il contrario. Si fa una fatica terribile a stare davanti all’Eucarestia, in preghiera silenziosa, la chiesa è quasi sempre vuota quando, nel primo venerdì del mese si espone il Santissimo e nei ritiri dei ragazzi e dei giovani è raro che si riesca a proporre l’adorazione.

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La caccia alla volpe

Si racconta che quando i lupi cacciano la volpe in un primo momento essi si muovono liberamente nella zona nella quale normalmente si muovono le volpi. La prima fase della caccia è di lasciare che i cani possano cogliere l’odore della volpe. Quando il branco riesce a fiutare le tracce della volpe i cani cominciano a correre seguiti a ruota dai cacciatori. Tuttavia l’elemento determinante non è tanto il fiuto, quanto la vista. Infatti quando un lupo avvista la preda incomincia a correre in maniera determinata e tutti gli altri cani seguono chi ha visto la volpe. Dopo un po’ di tempo si stancano di correre e siccome la volpe si dice sia più furba dei cani riesce quasi sempre a rintanarsi in qualche rifugio. Tuttavia il lupo che l’ha vista continua a rincorrerla nella speranza di prenderla.

Da qualche decennio ci si interroga, genitori, catechisti, preti, sul fatto che immancabilmente i ragazzi che hanno ricevuto la cresima si stancano di correre e interrompono la ricerca di un qualunque cammino di fede. Continua invece a rincorrere il Signore solamente chi ha avuto l’occasione di incontrarlo, di vederlo. Tutti gli altri smettono. Forse è proprio questa la risposta ma anche la prospettiva: è necessario che i nostri ragazzi, i giovani e noi stessi, abbiamo almeno una volta visto il Signore, allora lo continueremo a cercare e a rincorrerlo. Altrimenti si corre un po’, perché vediamo gli altri a correre, ma siccome poi ci stanchiamo, allora ci fermiamo e facciamo altro.

Al Signore pare piaccia essere rincorso. Lo conferma quella bellissima immagine del Cantico del Cantici nella quale il Signore si paragona all’amata e l’uomo di fede all’amato che cerca di rincorrere la donna del suo cuore, è inebriato dalla scia di profumo che l’amata lascia dietro di se, la cerca dietro ogni angolo di strada.

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