Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

il sito web della comunità parrocchiale San Giuseppe di Dalmine

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Il cammino attraverso la foresta

Il cammino attraverso la foresta è lungo solo se non si ama la persona che si va a trovare.

Mi pesa andare a messa, mi pesa pregare e fare esercizi di meditazione spirituale, e dunque non vado a messa, non prego, non medito. Di fronte a queste affermazioni, comprensibili ma non condivisibili, mi è venuto in mente il proverbio africano citato all’inizio. Una volta in parrocchia si era proposta l’adorazione notturna e un giovanotto mi diceva: io non vado, non riesco proprio ad alzarmi di notte. Amen gli dico io, pazienza, cosa vuoi che ti dica? Alcune settimane dopo lo vedo vicino all’antenna e mi dice? Hai visto il Gran Premio? Hai visto chi ha vinto? Premetto che non seguo né le macchine né le moto. Lui commenta la gara e vedendo che non ero molto interessato stava per andar via. Lo richiamo perché mi era venuta in mente una cosa e gli dico: ma tu l’hai vista la gara? Certo assolutamente sì. Ah ok ciao ciao. Mentre andavo a casa mi è saltato in mente il proverbio africano. Sì perché la gara del GP era alle tre di notte.

Certi cammini quando si ama la meta sono leggerissimi. Gli stessi cammini, quando non si ama la meta diventano lunghi e faticosissimi.

La questione dunque è di imparare a misurare la fatica non a partire dal cammino ma a partire dalla meta.

Quando un figlio è ammalato i genitori lo vegliano tutta la notte e magari il giorno successivo vanno a lavorare e non diranno mai che questa è una fatica.

Insomma quando si ama si sopporta e quando non si ama si abbandona.

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Benedetto rimprovera due monaci

 Nel chiostro centrale del monastero di Monte Oliveto c’è un bellissimo ciclo che racconta le storie di san Benedetto. Il monastero si trova vicino a Siena ed è incastonato in un paesaggio incantevole nelle Crete senesi. Un monaco di Bergamo, Dom Andrea, ci guida nella visita del monastero soffermandosi sugli affreschi più importanti della vita del Fondatore.

Gli affreschi sono stati realizzati da Luca Signorelli e da Sodoma a alla fine del 1400 e all’inizio del 1500. Tra le scene più belle di Luca Signorelli, il grande pittore di Cortona famoso soprattutto per aver realizzato la Cappella di san Brizio nel Duomo di Orvieto, c’è sicuramente quella che racconta “Come  san Benedetto dice alli monaci dove e quando avevano mangiato fuori dal monastero”.

Nella scena si vedono due monaci intenti a un pranzo in una locanda e, sullo sfondo, Benedetto, circondato dai monaci li sgrida per aver violato la Regola, che appunto impedisce ai monaci di uscire dal convento per i pasti.

Questo affresco è importantissimo oltre che per ciò che racconta, per il fatto che è citato da tutti i libri di storia dell’arte per l’evoluzione della prospettiva geometrica del XV secolo.

È un episodio di trasgressione dei due monaci.

Nell’interno della locanda si vedono due graziose domestiche indaffarate a servire i due monaci.

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Il castigamatti

Un po’ mi sono sentito così in questi mesi. Mi riferisco al ruolo ingrato che ho cercato di svolgere in oratorio in relazione ad alcuni ragazzi maleducati dai quali ho cercato di proteggere l’ambiente e soprattutto i più piccoli. Ricostruisco la vicenda.

Da un po’ di anni un gruppo di ragazzi manifesta ripetutamente mancanza di rispetto nei confronti dell’oratorio. Tengo a precisare che non è una questione di intolleranza nei confronti di persone non italiane, ma di intolleranza verso chi è maleducato: uso improprio delle cose e insolenza verso le persone. Ad un certo punto, giunto al colmo della sopportazione, decido di impedire loro l’accesso all’oratorio.

Incomincia un periodo teso, un serrato braccio di ferro tra me e loro.

L’unico atteggiamento è stato quello del castigamatti che letteralmente è un bastone con cui un tempo si metteva ordine nei manicomi, uno strumento che serviva a condurre alla ragione chi mostra di non avere senno per capire il valore delle cose.

Insomma il castigamatti, in senso figurato, è una persona che assume un aspetto minaccioso che con mezzi e con maniere dure presume di condurre all’obbedienza e al rispetto.

Ma così non è. Allora ho cambiato sistema dando loro una nuova possibilità. Ho cercato di dialogare. Non ho sciolto tutte le riserve e soprattutto non dimentico che loro sono furbi e possono prendermi in giro. Pazienza.

Due questioni si ripresentano come un ritornello: ma l’oratorio è sempre per forza aperto a tutti? e cosa abbiamo fatto per aiutarli?

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Felix culpa

Per divertirmi mi soffermo spesso, appunto come un gioco, sull’etimologia delle parole. Ma poi mi accorgo presto che tanto gioco non è. La parola individuata questa volta è “felice”.

Il dizionario apre un ventaglio di significati che convergono nella radice “feo” = che possiede quello che veramente appaga i desideri, che ha vantaggi, che produce, che è fecondo…

Una terra felice è una regione ricca dei doni della terra. Una risposta felice è tale quando genera nuove prospettiva, nuovi punti di vista. Un carattere felice è quello di chi, anche in condizioni difficili, rimane fecondo. Una relazione felice è quella che genera benessere e speranza.

Mi colpisce la correlazione tra felicità e fecondità. «Chi è felice?» – domanda una monaca ad un gruppo di giovani universitari. E spiega: «Sapete bene, per esperienza, che felice non è chi raggiunge un risultato. Non è facile capire cosa voglia dire essere felici. Felice è chi è fecondo, chi genera vita intorno a sé, fisicamente o spiritualmente».

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Le corna di Mosè

Tra gli affreschi della chiesa, che finalmente si vedono bene, si riconosce molto bene il ritratto di Mosè, posto esattamente al di sopra dell’ambone. Lo si riconosce per il Decalogo che sorregge mentre lo presenta al popolo, ma anche per le corna che ha sul capo. Ma perché Mosè ha le corna?  Non si tratta di un motivo biblico né di un significato teologico. Si tratta invece di un errore di traduzione. Al capitolo 34 del libro dell’esodo si racconta che Mosè rimane con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua e il Signore scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole. Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui.

La rappresentazione delle corna di Mosè nasce da un errore commesso da San Girolamo quando nel quinto secolo stava traducendo la Bibbia dall’ebraico al latino. Girolamo ha confuso la parola “keren” (= corno) con il termine “karem” (= raggio di luce). Così anziché scrivere che il volto di Mosè, sceso dal monte, divenne luminoso, pieno di raggi di luce, tradusse che il volto di Mosè divenne cornuto.

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Il nostro giubileo

La chiesa nel mondo sta vivendo il Giubileo. È vero, un po’ “rovinato” dall’epilogo di Papa Francesco, ma pur sempre un evento di gratitudine nel segno della speranza e della riconciliazione.

Anche nella nostra Parrocchia celebreremo un Giubileo particolare: la riapertura della nostra chiesa al termine del lungo intervento di restauro.

Vivere il Giubileo significa far incontrare in un punto solo tre dimensioni fondamentali della nostra vita: il passato il presente ed il futuro. Si entra nella Porta Santa, di Roma o di qualsiasi chiesa giubilare per ringraziare il Signore per i doni ricevuti nel passato, per manifestare disponibilità nel tempo a venire e per esprimere il nostro si, qui e adesso.

Abbiamo chiuso la chiesa i 7 gennaio scorso e il 3 maggio la riapriamo. Varcheremo di nuovo la soglia della nostra chiesa e sarà il nostro giubileo.

Ringraziamo il Signore per il passato della nostra parrocchia, dalla fondazione del 1931 ad oggi, per tutti i cristiani che hanno creduto nella chiesa e l’anno amata come comunità, per tutti i benefici che ha concesso, per le vicende dolorose sopportate e per il coraggio di ricominciare, per tutti i sacramenti celebrati, per il Vangelo proclamato e per la grande mole di carità organizzata. Chiesa di mattoni e di persone.

Preghiamo il Signore per il futuro. Cosa sarà della chiesa e della parrocchia non ci è dato di sapere, e non possiamo nemmeno immaginare se i numeri cresceranno o diminuiranno. Una cosa però è certa: il Signore non ci abbandonerà mai e sarà sempre al nostro fianco.

Infine celebriamo il presente cioè diciamo si all’oggi di Dio e nostro. Oggi si compie la salvezza, con le opportunità che ci sono date, con i limiti e gli slanci che caratterizzano il nostro “adesso”.

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Franciscus

Metto a fuoco alcune espressioni che vorrei mi rimanessero nella memoria pensando a Papa Francesco.

Uomo teopatico. Questo è un vocabolo che non si trova nei dizionari ma che pare sia molto pertinente alla persona di Francesco, uno appunto che Dio non l’ha studiato, ma l’ha patito, si è lasciato attraversare dal mistero divino. Come “empatia” significa capacità di mettersi nei patti dell’altro così “Teo – patia” potrebbe significare mettersi nei panni di Dio. Forse è proprio questa la dimensione più importante della sua testimonianza. È molto facile parlare di Dio ma è più importante parlare con Dio.

La gioia del Vangelo. È il titolo del suo documento programmatico “Evangelii gaudium” l’esortazione apostolica che nel 2013 ha offerto alla Chiesa. Nel testo emergono con chiarezza i quattro principi orientativi per dare forma ad un popolo, come diceva. Primo: il tempo è superiore allo spazio, secondo: l’unità prevale sul conflitto, terzo: la realtà è più importante dell’idea e quarto: il tutto è superiore alla parte.

Il Vangelo è una fonte inesauribile di gioia, ma deve uscire dalle sagrestie ed incendiare il cuore degli uomini e delle donne del mondo, deve guarire da tutte le sovrastrutture che lo fanno apparire ammuffito.

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Saluto al Santo Padre Francesco 24-25 aprile 2025 Roma

Arrivo a Roma prima dell’alba e, seguendo le indicazioni delle autorità locali non dipendenti dalla nostra organizzazione, percorso dei fedeli verso l’Ingresso in Basilica di San Pietro per il passaggio e la preghiera di fronte al corpo di Papa Francesco.
Al termine, in base all’afflusso di fedeli, partenza per il ritorno a Bergamo (comunque almeno dopo 9 ore di sosta autista) con arrivo in tarda serata.



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L’inaudita prossimità di Dio

Ho sempre bisogno di pensieri profondi che nutrano il mio spirito. Sempre e soprattutto nei giorni della settimana santa. Voglio condividere due di questi pensieri che mi hanno aiutato nei giorni scorsi ad entrare nel triduo Santo della Pasqua.

La prima affermazione è del grande teologo Karl Rahner che dice: “Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi del Crocifisso”.

Cosa avviene quando decido di inginocchiarmi davanti al Crocifisso? Prima di tutto imparo la grande lezione del perdono, la misura dell’amore di Dio che non ha misura. In secondo luogo imparo l’umiltà di Dio. Come diceva san Francesco davanti alla croce: Guardate fratelli l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da Lui esaltati”.

Poi imparo i giusti criteri per giudicare le cose, per discernere la realtà, per trattenere ciò che conta e lasciar andare ciò che non ha valore. Infine imparo che la sofferenza non è che la penultima parola sulla vicenda umana, perché l’ultima, la più importante sarà: oggi sarai con me nel Paradiso.

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Allargare la vita

Ho ascoltato il travolgente monologo di Benigni dello scorso 19 marzo intitolato “Il sogno”. Ad un certo punto saluta una donna presente in sala e si complimenta con lei per essere una delle madri dell’Europa, una certa signora Corradi che ha inventato l’Erasmus. Pensavo che il nome derivasse dal grande Erasmo da Rotterdam ed invece vengo a sapere che Erasmus è un acronimo che sta per EuRopean community Action Scheme for the Mobility of University Students.

La cosa che più mi ha colpito è quando, parlando della generazione Erasmus, il noto programma finanziato dall’Unione europea per favorire la mobilità tra i paesi europei, in particolare per gli studenti, Benigni dice: la fortuna che hanno questi giovani è di poter allargare la vita. Sì perché la vita è importante non solo cercare di allungarla, ma soprattutto di allargarla.

É un po’ come dire: non è importante aggiungere anni alla vita ma aggiungere vita agli anni.

La nostra vita potrebbe essere lunghissima ma noiosa, vuota o senza sogni. Chi potrebbe desiderare una vita così? D’altra parte la vita può anche essere breve ma molto intensa.

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La predica dei morti

Se vi trovate nelle vicinanze di Torino, inoltrandosi nella Valle Susa, a pochi chilometri dal confine francese, si può visitare la Sacra di San Michele, un edificio medievale costruito nel 1170 come fortezza e monastero.

Panoramicamente straordinario, sulla cima del monte per vegliare sulla valle e per attirare i pellegrini.

Sì fa un po’ di fatica per raggiungere la chiesa gestita ora dai monaci rosminiani, dediti al carisma della carità. La chiesa è stata definita da Clemente Rebora, un illustre poeta rosminiano: il “culmine vertiginosamente santo”.

All’interno colpiscono gli affreschi medievali, in particolare il più antico di tutti intitolato “la predica dei morti”. La scena presenta due scheletri che dialogano con un gruppo di fedeli. Le parole della predica sono rese visibili dai due cartigli che gli scheletri sorreggono: il primo in latino che invita a pregare perché Dio abbia pietà di tutti i defunti e l’altro in francese che oltre alla preghiera invita a meditare sul comune destino per tutta l’umanità: un giorno noi eravamo come voi e un giorno voi sarete come noi.

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La porta della cura

Il percorso giubilare proposto nella quaresima ci ha condotti a visitare la chiesa nuova dell’ospedale Papa Giovanni.

Tanti i particolari, messi in evidenza dall’ottima guida Milena. Tra questi quelli che mi hanno maggiormente colpito sono l’altare e Maria Addolorata ed il pavone. L’altare è costituito da un grande blocco di marmo bianco che campeggia nel presbiterio, sollevato da terra e appoggiato a tanti sostegni metallici. Il marmo è solcato ai lati dalla decorazione che raffigura due piante che si intrecciano ma non si toccano: l’incenso e la mirra. Per completare la trilogia dei doni natalizi dei Magi manca l’oro che di fatto è il colore del bassorilievo. Intuizione notevole del mistero eucaristico. Sull’altare si fa presente ogni volta il Verbo incarnato nella grotta di Betlemme e ripresentato nel Pane Bianco sull’altare.

Molto suggestiva la connessione tra il Natale dell’altare e la Pasqua.

Maria Addolorata si trova a sinistra guardando il crocifisso.

Colpisce il gruppo disegnato da Mastrovito: tre donne e, alle spalle, San Giovanni XXIII. La guida ci fa notare che le figure sono dipinte allo stesso piano di chi guarda per dire che la sofferenza ci rende tutti allo stesso livello. Inoltre: I volti sono ritratti di persone comuni, qualcuno precisa che il volto dell’Addolorata sarebbe il volto della madre dell’artista.

Papa Giovanni, a cui è dedicata la chiesa e l’intero ospedale, è alla spalle come presenza di consolazione e di incoraggiamento: ci esorta a vivere la sofferenza con pazienza e con fiducia.

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Il megafono della nave

Succede quando sei in un posto che non conosci di non sapere dove andare e come orientarti, perdi i riferimenti di dove sei e soprattutto hai davanti molte possibilità ma non sai che strada prendere.

Anche il profeta Isaia pare riferirsi a questa sensazione quando afferma: Guardai ma non c’era nessuno, tra costoro nessuno era capace di consigliare; nessuno da interrogare per averne una risposta. (Is 41,28).

L’esperienza raccontata da Isaia, oltre a mettere in evidenza il disorientamento, parla anche della solitudine e della fatica a reperire qualche aiuto su cui fare affidamento.

Certo oggi muoversi anche in posti sconosciuti è molto più facile; con Google Maps vai in ogni dove.

Il problema si pone invece quando il disorientamento è relativo allo spirito.

C’è un’espressione del filosofo Soren Kierkegaard che esprime molto bene il senso generale del disorientamento: State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.

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Fate un buon matrimonio

Ogni tre per due ascolto coppie felici del proprio matrimonio e subito penso agli adolescenti che si innamorano, si mettono insieme, si lasciano, si preparano insomma, meglio che possono, al proprio futuro.

Capita anche, altrettanto frequentemente, di ascoltare come per altri la vita matrimoniale possa essere un inferno, che inesorabilmente conduce a scelte di separazione, anche dopo pochi anni di vita insieme. Le cause o della riuscita o del fallimento evidentemente non sono mai subito chiare.

In occasione della festa degli innamorati di San Valentino su una rivista di pastorale familiare ho letto una risposta convincente di Baden Powell, il fondatore degli scout.

Nel volume “L’educazione non finisce mai”, interrogato sulla questione affettiva, ha scritto: «Mi è stato domandato se potevo definire in poche parole, per esempio in cinquanta, la mia concezione su ciò che si poteva fare di meglio nella vita. Risposi che quattro mi sarebbero bastate: fate un buon matrimonio. È con ciò voglio dire non una piacevole luna di miele, di qualche settimana o di qualche mese, seguita da una tolleranza reciproca, bensì una luna di miele che resista alla prova degli anni».

La dimensione affettiva e le scelte del cuore rappresentano la parte decisiva della propria e dell’altrui felicità.

Per questo diventa determinante l’educazione dei sentimenti approntata nell’età dell’adolescenza. Fate un bel matrimonio è la stessa cosa che dire preparati a costruire una bella famiglia.

Ma come si fa a fare un bel matrimonio?

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Che fegato

Mi incuriosisce, tra le tante cose che non so, il ruolo ed il funzionamento del fegato, la ghiandola più grossa del corpo umano. È un organo dalle funzioni complesse e misteriose. Mi informo su una sintetica enciclopedia per ragazzi e imparo che il compito del fegato è molteplice: drenare il sangue, catturando le sostante nutritive contenute in esso e poi metabolizzarle e distribuirle agli altri organi, poi produce la bile per l’assorbimento dei grassi, elabora gli zuccheri per l’energia delle cellule del corpo, realizza la sintesi del colesterolo, distrugge le sostanze inutili, produce i globuli rossi…

Quando il Creatore ha creato il nostro corpo ha pensato proprio ad ogni cosa. Siamo dei prodigi nel corpo, dentro e fuori e ogni parte funziona in relazione al tutto. Il progettista è stato semplicemente geniale. Siamo dei prodigi, ma nello steso tempo siamo fragilissimi.

Il fegato appunto è importantissimo ed è per questo che le malattie relative al fegato sono gravissime e letali.

Ora capisco perché ci sono diversi modi di dire che si riferiscono al fegato.

Avere fegato per esempio si dice di una persona coraggiosa perché il fegato ha sempre rappresentato il simbolo della forza fisica e della caparbietà. I greci esprimono questa convinzione con il mito di Prometeo che con coraggio rubò il fuoco agli dei e quando venne scoperto venne incatenato alla roccia della montagna. Zeus dispose che ogni giorno un’aquila gigante gli divorasse il fegato. Ogni notte però il suo fegato ricresceva. Il coraggio è come il fegato: si rigenera. C’è un altro modo di dire molto curioso: aver mangiato il fegato di capra. Vorrebbe dire mancare di discrezione, essere chiacchieroni, non saper mantenere un segreto. Non trovo spiegazioni di questo modo di dire, ma lo trovo interessante.

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Capax Dei

In questi anni le abbiamo provate tutte, ha affermato in nostro vescovo in una recente assemblea diocesana con i catechisti. Le abbiamo provate tutte ma i risultati sono sempre fallimentari. L’iniziazione cristiana pare non inizi proprio a nulla. Dopo la cresima i ragazzi spariscono, ci sono ancora all’oratorio ma in chiesa non ci vanno più.

La prospettiva futura pare essere senza grandi speranze.

In un incontro di formazione permanente per sacerdoti è stata dedicata una mattinata alla riflessione e al confronto sulla catechesi e sull’educazione cristiana dei bambini. Tanti e profondi i temi, molte le preoccupazioni ma anche gli spunti per cammini futuribili. Qualche parrocchia, anche della nostra gloriosa diocesi, non fa più catechismo ai ragazzi, o perché non sono più reperibili i catechisti, o perché il parroco dice: è inutile, non serve più a nulla, diciamo ai genitori che la parrocchia non organizza più il catechismo e quando loro ritengono che i figli sono pronti per ricevere un Sacramento allora la parrocchia si impegna a proporre un cammino personalizzato.

Il rischio di cadere in una visione di depressione o di disorientamento è stato ovviato dal relatore con una ripresa del pensiero di fondo del direttorio della chiesa del 2020 intitolato “Rendere in Vangelo sempre attuale”.

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In cosa speriamo?

Afferma Pierangelo Sequeri, teologo e poeta, autore dei testi di molti canti che quotidianamente utilizziamo nelle nostre liturgie: La speranza cristiana non è attesa “che Dio ce la mandi buona” o azzardo della fortuna di una “giocata alla lotteria”. La speranza cristiana non è probabilità dei calcoli dell’uomo, è la certezza di Dio, una certezza che in ultimo si fonda su un dato di cui la speranza cristiana è certa, sulla risurrezione dalla morte per una vita riconciliata: in cui nessun debito rimane insoluto e tutte le vittime sono puntualmente risarcite. (Tratto dal giornale Avvenire di domenica 5 Gennaio 2025).

Il tempo che passa inesorabilmente pone con insistenza e con tanta ansia molte domande: che ne sarà del mondo e di noi? Verso cosa stiamo andando? Che fine faremo e cosa resterà di tutto quello che abbiamo fatto e facciamo?

La virtù teologale della speranza, tema centrale del Giubileo che caratterizza questo anno santo, pare invece ribaltare queste domande e riporta i cristiani a domandarsi: ma davvero noi aspettiamo il ritorno del Signore Risorto?

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Impliquer

Mi pare interessante che nei racconti del Vangelo non esiste un passo nel quale Gesù “spieghi” il perché della sofferenza. E nemmeno esiste un passo nel quale Egli “spieghi” il tema della gioia. Eppure sofferenza e gioia sono il tutto della nostra vita. Mi pare altrettanto interessante un altro dato: che Gesù in prima persona soffre accanto a coloro e soffrono e che quando Lui passa tutti sperimentano la gioia.

I francesi direbbero che Gesù non spiega (expliquer) ma si lascia coinvolgere (impliquer).

Alcune considerazioni. Prima di tutto dobbiamo constatare il nauseante fastidio quando incontriamo qualcuno che a tutti i costi vuole spiegare (expliquer) sempre e tutto e d’altra parte la profonda consolazione per quando incontriamo qualcuno che si coinvolge (impliquer) con i nostri sentimenti, magari in silenzio. È un po’ quello che con una mirabile sintesi affermava san Paolo VI: il mondo oggi non fa bisogno di maestri, ma di testimoni.

Verrebbe da dire: non ha bisogno di maestri, figuriamoci di maestrine… che hanno sempre qualcosa da spiegare, più per palesare la propria superiorità che per il desiderio di coinvolgersi.

Noi, volendo, possiamo fare come Dio. Lui sì in realtà potrebbe spiegare ogni cosa. Ma non lo fa. Perché? Forse per lasciarci liberi di cercare un senso alle cose, forse per non vincolarci a risposte preconfezionate. Fatto sta che Lui non spiega ma si lascia coinvolgere.

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