Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

il sito web della comunità parrocchiale San Giuseppe di Dalmine

Ultimi articoli pubblicati

La preghiera del Rosario

La preghiera del Rosario è, per molti aspetti, la sintesi della storia della misericordia di Dio che si trasforma in storia di salvezza per quanti si lasciano plasmare dalla grazia. I misteri che passano dinanzi a noi sono gesti concreti nei quali si sviluppa l’agire di Dio nei nostri confronti. Attraverso la preghiera e la meditazione della vita di Gesù Cristo, noi rivediamo il suo volto misericordioso che va incontro a tutti nelle varie necessità della vita.
Maria ci accompagna in questo cammino, indicando il Figlio che irradia la misericordia stessa del Padre. Lei è davvero la Madre che indica il percorso che siamo chiamati a compiere per essere veri discepoli di Gesù. In ogni mistero del Rosario la sentiamo vicina a noi e la contempliamo come prima discepola di suo Figlio, la quale mette in pratica la volontà del Padre.

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in Storie di fede e Riflessioni

Benvenuto don Fabio

Carissimo Don Fabio,
ti diamo il nostro più sincero e caloroso benvenuto nella Comunità Parrocchiale di Dalmine. Siamo felici che tu abbia accettato il nuovo incarico che il Vescovo Francesco ha voluto assegnarti e siamo pronti ad accoglierti nel nome del Signore. Ti offriamo la nostra piena collaborazione ed il supporto in questo cammino comune, affinché possa essere, oltre che impegnativo, anche proficuo. Negli incontri di reciproca conoscenza dei giorni di scorsi, ci hai spesso chiesto di usare pazienza nei tuoi confronti. Allo stesso modo siamo noi a chiederti di essere paziente per quelle volte in cui daremo per scontato che tu sappia già tutto. Guidaci in questo cammino di vita comunitaria che ci attende, nel solco della continuità ma allo stesso tempo con l’impronta che tu vorrai dare, certi che sarà densa di valori e di reciproca soddisfazione. Oggi consegnano a te la nostra comunità che, negli ultimi anni abbiamo vissuto sotto la sapiente ed energica guida di Don Roberto, che non possiamo non ringraziare. Come hai constatato la nostra Parrocchia è molto attiva grazie alla presenza di molteplici gruppi che la animano, dai catechisti agli animatori, al gruppo di preghiera a quello missionario, alla Caritas al gruppo liturgico alla corale al coretto, agli affari economici al movimento delle famiglie al consiglio pastorale, ma soprattutto animata dai tanti volontari. La
Parrocchia di Dalmine centro è particolare, fonda le sue origini nell’anno 1931. Da subito è cresciuta e si è sviluppata in stretta relazione con l’attuale Tenaris Dalmine Spa che, negli anni con i suoi dirigenti e maestranze provenienti anche da tutta l’Italia e dall’estero ha popolato la comunità.
L’allora Dalmine Spa, ne l 1928 ha supportato l’edificazione della Chiesa Parrocchiale con progetto dell’Arch. Greppi e tramite l’impresa Ferretti. Donata alla Diocesi, unitamente alla casa Parrocchiale, il 18 marzo del 1931 viene consacrata dall’allora Vescovo Marelli e affidata a Don Giuseppe Rocchi.
Negli anni a seguire si arricchisce con la casa del curato, il cineteatro, la scuola inter parrocchiale, la casa di accoglienza San Giuseppe e lo spazio chiamato Arca con Don Roberto. Non si può dimenticare il bombardamento dello stabilimento e della città di Dalmine del 6 luglio 1944 che ha profondamente segnato la nostra comunità, la stessa comunità operosa e tenace che si è rigenerata e ricostruita per arrivare sino ad oggi e consegnarsi alla tua sapiente e saggia guida Pastorale. Sotto lo sguardo paterno del nostro Patrono San Giuseppe e le amorevoli attenzioni di Maria ti auguriamo buon lavoro.

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in I grandi eventi, Primo piano, Storie di fede e Riflessioni

Saluto a don Roberto e don Agostino.

BAMBINO
Ho fatto un gioco una volta, mi sono nascosto sul gradone più alto degli spalti, e guardavo gli altri bambini correre di sotto. Per ognuno cercavo di indovinarne il nome: Marco, Giulia, Luchino, Matteo, Marti. Speravo tanto si girassero! Se avessi saputo il loro nome avrei potuto chiedergli di giocare insieme. Ed ecco all’improvviso schiocca come un bacio lieve il mio nome: è un saluto
ridacchiato, un pizzicotto fin troppo affettuoso, un invito a tirare la palla, a dire la mia davanti a tutti, anche tra i grandi. E se quel: “Eccola l’Ottavia!” dischiude anche solo un sorriso, questa è un po’ anche la mia casa.
ADOLESCENTE
Da adolescente corro sempre da una parte all’altra: scuola, calcio, giri a zonzo per il paese e naturalmente non può mancare l’oratorio. Il tempo per conoscermi è sempre poco, il futuro è troppo incerto per capirci qualcosa. Eppure, l’incontro ado della domenica sera è un appuntamento fisso. Mi liberava la mente ma al tempo stesso me la riempie di pensieri. Sto crescendo e il desiderio di uscire, essere grande, a volte mi fa avere un rapporto altalenante con l’oratorio, un po’ mi ci trovato mentre altre volte sento la necessità di allontanarmi. Qualcuno però continua a prendersi cura di me, mi dà fiducia e crede in talenti che nemmeno so di avere.
GIOVANE
Alcuni anni fa ho scoperto di essere brava a relazionarmi con gli adolescenti. È una responsabilità enorme, forse più grande di me, eppure ho la possibilità di sbagliare senza sentirmi giudicata e l’aiuto non manca. Una sorta di passaggio di testimone insomma. Carlotta, invece, tiene aperto il bar in settimana, Daniele accompagna un gruppo di ragazzi nel percorso di catechesi. Ciascuno, se lo desidera, ha la possibilità di offrire agli altri nella misura più affine a lui.
ADOLESCENTE
La porta dell’oratorio è sempre aperta per me, per noi “pellegrini di vita”, un posto dove trovare un sorriso amico, una casa che accoglie, dove intelligenza, riflessione, convivialità e divertimento hanno trovato il loro equilibrio grazie a una guida solida, che crede nelle potenzialità di giovani e adolescenti.
GIOVANE
E ho capito che dare e ricevere non sono due facce della stessa medaglia ma un connubio sinfonico fondamentale per la propria vita. L’oratorio è un campo di prova: c’è un tempo per ricevere e un tempo per dare, momenti in cui ci si mette alla prova e altri in cui si è faro.

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in I grandi eventi, Primo piano, Storie di fede e Riflessioni

A mo’ di saluto

Questo ultimo messaggio comunitario non avrei mai voluto scriverlo. Ogni domenica ho cercato di esprimere qualche pensiero per offrire spunti di riflessione come nutrimento per i nostri cammini umani e cristiani.

Ora si conclude questa piccola rubrica che spero vivamente sia servita a ciascuno di voi. A me scrivere serve per riflettere e per mettere a fuoco  aspetti salienti della vita umana e cristiana. Devo anche dire sinceramente che mi diverte molto scrivere la paginetta con il pensiero della domenica. In occasione di questo ultimo pensiero vi lascio tre parole.

 

Grazie. Quattordici anni fa sono arrivato in punta di piedi e non senza paure per la mia inadeguatezza. Ma qui ho trovato una marea di persone che hanno costantemente manifestato la propria vicinanza e collaborazione. Mi sono più volte lasciato affascinare dall’esempio di tante persone e mi hanno edificato l’umanità e la fede di uomini e donne che, non necessariamente legandosi a me, mi hanno testimoniato la bellezza del vivere. Grazie perché ciò che ho vissuto a Dalmine mi ha aiutato a maturare come uomo e come prete.

Scusate. È la seconda parola. Soprattutto chiedo perdono se per qualcuno sono stato d’inciampo o peggio ancora una contro-testimonianza. Sono sempre stato cosciente delle mie qualità e ancor più dei miei limiti. A causa dei miei difetti so che qualcuno anziché avvicinarsi si è allontanato. Ogni giorno ho chiesto al Signore di aver pietà di me.

Arrivederci. È la terza parola, parola che configura la prospettiva del futuro. In due sensi. Prima di tutto perché sarà sempre bello rivedersi, qui o là. Bello perché nella libertà e senza morbosità potremo continuare a condividere i nostri cammini di crescita. Secondo perché comunque tutti ci incontreremo, nella Patria che tutti ci attende, quando la promessa del Signore si realizzerà.

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L’esito di un esame e la Lectio divina

Noi non possiamo pensare che l’anima è il corpo siano separabili come se fossero due realtà a sé stanti.

Questo lo pensavano i filosofi come Platone per esempio che diceva che l’anima è immortale e il corpo è solo uno strumento per contenere temporaneamente lo spirito. La dualità tra anima e corpo è sempre stato un tema dibattuto in ogni disciplina.

Avere a cuore il corpo significa star bene nello spirito e, forse, viceversa.

Mi ha molto colpito a questo proposito, il passaggio di un articolo di un acuto sacerdote che afferma: Fare le analisi previe ad un’operazione in ospedale ha una dimensione spirituale, oggi quasi più che un’ora di Lectio divina. Perché occuparsi del corpo ti obbliga a pensare.

Questa riflessione mette in evidenza il realismo con cui possiamo valutare il rapporto tra corpo e anima senza scadere nella dicotomia per cui il corpo va da una parte e l’anima dall’altra.

La logica dell’incarnazione di Dio è il riferimento più illuminante per considerare con armonia e rispetto ogni affermazione.

Una buona sintesi mi pare quella realizza San Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesi, San Paolo dice: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”.

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Quando le ferite diventano feritoie

Quando Ulisse ritorna, sotto le spoglie di un mendicante, nella sua isola di Itaca nessuno lo riconosce. Nemmeno la moglie Penelope e tantomeno il figlio Telemaco.

Ulisse entra nel palazzo, Penelope gli fa delle domande sulla guerra di Troia e poi, dice ad Euriclea, la nutrice fedele di Ulisse: prenditi cura di lui e poi congedalo.

L’anziana balia lo riconosce mentre si prende cura di lui e gli lava i piedi. Lo riconosce per una cicatrice che Ulisse aveva sulla gamba e che si era procurato da giovane in una battuta di caccia.

Dalla cicatrice riconosce il suo re.

Scrivo questa nota durante un tranquillo pomeriggio di una domenica di luglio. Nel Vangelo di questa domenica abbiamo ascoltato la celebre parabola del buon Samaritano. Proprio pensando al malcapitato lasciato mezzo morto sulla strada ho pensato alla cicatrice di Ulisse. Come la cicatrice è il segno di riconoscimento del re così i segni delle percosse sulla strada da Gerusalemme a Gerico, sono il riflesso del divino. O meglio attraverso la cura verso il malcapitato il Samaritano coglie la presenza di Dio.

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I sette nani

Prova a dire i nomi dei sette nani. Un comico simpatico racconta che con frequenza chiede al pubblico di elencare i nomi dei sette nani e quasi sempre la gente arriva fino a sei e normalmente dimentica sempre quello: Gongolo.

La favola di Biancaneve dei fratelli Grimm è forse la più famosa e simpatica di tutte le favole. Mi soffermo sui nomi dei sette nani che l’autore ha dato loro perché sono veramente curiosi, soprattutto per l’etimologia inglese.

Tutti i nomi, tranne uno, descrivono un difetto.

Il significato del nome Mammolo (Bashful) richiama un bambino che non riesce a fare a meno della mamma, un mammone che non riesce a fare nulla senza il consenso della mamma. Mammolo è il nano più timido che arrossisce e si imbarazza subito.

Brontolo (Grumpy) è il nano scorbutico a cui non va mai bene nulla e protesta sempre lamentandosi di tutto e di tutti, risponde male e non sorride mai.

Eolo (Sneezy) richiama il vento ed il suo significato è “starnuto”, quando starnutisce per la sua allergia spazza via tutto.

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Homeless Jesus

Mi trovavo a Fatima qualche settimana fa.

Prima di addormentarmi pensai: se questa notte mi sveglio mi alzerò e andrò nella cappella delle apparizioni e pregherò il rosario.

Ogni promessa è un debito. Soprattutto con il Signore.

Alle 2 di notte, mentre, con gli occhi stretti, camminavo verso la cappella mi cade l’occhio su una panchina sulla quale è steso un uomo, avvolto in una coperta che dorme. Chissà che freddo starà patendo, penso. Poi arrivo davanti alla Madonna e prego il rosario. Ad ogni ave Maria penso al volto di qualcuno e prego per chi ha più bisogno di pace e di serenità.

Verso le due arrivano alcuni guardiani notturni. Rientro in albergo e in lontananza getto l’occhio alla panchina. È ancora là e non si è mosso per niente.

Ritorno a dormire e un quarto d’ora prima delle 8 ritorno alla cappella per la Messa. Rivedo la panchina e finalmente capisco il motivo per cui l’uomo che dormiva non si è spostato di una virgola. Mi avvicino e noto con sorpresa che è una statua in bronzo. Guardo bene e scopro che l’uomo, completamente avvolto in una coperta è irriconoscibile. Ma mi sbaglio. C’è un particolare che lo rende esplicitamente riconoscibile. Osservo i piedi e vedo le stigmate. Mi si apre un mondo: quell’uomo, nel recinto sacro della spianata del Santuario è Gesù. Il messaggio è inequivocabile: il Signore si identifica con i poveri.

D’altronde Gesù l’aveva detto: i poveri li avrete sempre con voi. Ma aveva anche detto: io sarò con voi tutti i giorni, per sempre, fino alla consumazione dei tempi. Queste due prospettive convergono verso la stessa realtà:

 

Gesù è con noi per sempre negli ultimi, nei poveri. La statua è stata descritta come una “traduzione visiva” del passaggio del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

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Non essere imbecille

In un libro bellissimo, intitolato “Etica per un figlio”, un papà scrive una lunga lettera a suo figlio che sta per diventare maggiorenne. Gli rivolge questo augurio: Lo sai qual è l’unico dovere che abbiamo nella vita? Quello di non essere imbecilli. Ma non ti credere, la parola «imbecille» è più sostanziosa di quello che sembra. Viene dal latino baculus, che significa «bastone», e l’imbecille è chi ha bisogno di un appoggio, del bastone per camminare. (…)

Poi l’autore prosegue con un lungo elenco di situazioni in cui le persone possono rivelarsi imbecilli, bisognose di un bastone.

Imbecille è colui che crede di non volere nulla, dice che tutto gli è indifferente, e non fa altro che sbadigliare o dormicchiare anche se tiene gli occhi aperti e non russa. Colui che crede di volere tutto, la prima cosa che gli capita davanti e il suo contrario: andare via e restare, ballare e rimanere seduto, tutto in una volta. Colui che imita i desideri di chi gli sta vicino oppure sostiene il contrario «perché sì», e tutto quello che fa è dettato dall’opinione della maggioranza tra quelli che lo circondano: è conformista senza averci riflettuto o ribelle senza motivo.

Colui che vuole con forza, è aggressivo, non si ferma davanti a niente, ma sbaglia nel giudicare la realtà, si lascia depistare completamente e finisce per scambiare per benessere ciò che lo distrugge.

Ciascuno di questi esempi di imbecillità ha bisogno di un bastone, ossia di appoggiarsi a qualcosa d’altro, qualcosa di esterno che non ha nulla a che vedere con la libertà.

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L’uomo che passeggiava nella Bibbia

Lo scorso anno, nel mese di aprile, è morto don Giacomo Facchinetti. Era un sacerdote molto conosciuto a Bergamo perché ha insegnato per ben 47 anni nel seminario della diocesi ed ha visitato molte parrocchie, tra cui la nostra, per conferenze o corsi biblici.

Quando ero studente in teologia lo ricordo come un insegnante eccellente, con una cultura ampia e profonda e una conoscenza biblica ineccepibile. Quando entrava in classe, seduto in cattedra iniziava sempre con il racconto di una barzelletta, magari anche bella saporita, e poi iniziava la lezione. Ci sorprendeva il fatto che tra le mani aveva solo il libro della Bibbia, senza nessuna dispensa, senza commentari. Sapeva tutto a memoria e ascoltarlo era sempre un piacere.

David Maria Turoldo lo amava descrivere come l’uomo che “passeggiava nella Bibbia”. Famosa era la sua battuta: Il primo principio ermeneutico per una buona lettura della Sacra Scrittura è girare le pagine. Intendeva ironicamente dire che la Bibbia prima di tutto bisogna prenderla in mano e girare le pagine per leggerla. Poi qualcosa succede sempre perché tra quelle pagine c’è la Parola del Signore. E Lui parla. D’altronde se non la si legge mai è impossibile ascoltare la Voce divina.

Don Giacomo è stato un grande uomo, semplice e umile. Quando capitava che qualcuno si complimentasse per la sua bravura soleva dire: sono più le cose che non capisco di quelle che capisco: alcuni di voi mi ritengono più intelligente di quanto io non sia. Quando gli si facevano domande difficili sommessamente rispondeva: non so, non capisco, faccio fatica…

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Il buio non esiste se lo sai colorare

Esordisce così Alex Cadili, il testimone che abbiamo incontrato con gli adolescenti al campo estivo di Sestri. Nella settimana abbiamo approfondito alcune parole del Giubileo: speranza, memoria, riposo, perdono, rito e festa. Abbiamo condiviso alcune attività per aiutarci ad avvicinare le parole del Giubileo alla nostra vita.

Tra le proposte appunto, l’ascolto di un testimone speciale. Alex è un cantautore di Genova che fin da piccolo ha dovuto fare i conti con una malattia rara che ha reso molto fragili le sue ossa. A dodici anni gli prospettano un futuro nel quale non potrà camminare. Inoltre perde completamente la vista. Eppure, grazie alla solidità della sua fede, non si scoraggia e decide di far fruttare il suo talento: la passione per la musica, cominciando a scrivere canzoni per reagire con la poesia e la musica alle avversità della vita.

Ci dice: Le fragilità non sono una sfortuna ma una sponda, una nuova opportunità.

Il punto di riferimento per Alex è la testimonianza luminosa di Chiara Badano (1971-1990), una giovane donna attivamente impegnata in Liguria, nel movimento dei focolarini. A 17 anni fu anche lei colpita da un terribile tumore osseo che nel giro di pochi anni le causò la morte. Durante il suo calvario non perse mai la fiducia nella presenza del Signore e la serenità d’animo. Appena poteva incontrava gente e diffondeva la luce della sua fede a tutti. Prima di morire donò tutti i suoi averi ad un amico in partenza per una missione in Africa.

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Educare alle grandi virtù

Una delle persone più belle del diciannovesimo secolo è Natalia Ginzburg, (Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 8 ottobre 1991), scrittrice, drammaturga, politica attivista, una figura di primo piano nella letteratura italiana del Novecento.

Natalia Ginzburg, così la descrive la giornalista Laura Balbo, è una donna affettuosa con le persone che le sono attorno, molto consapevole dei problemi umani e politici del mondo di cui siamo parte; schiva e discreta, silenziosa nelle maggior parte delle occasioni, sempre attenta: la sua presenza non si deforma, non si appanna. Direi proprio un gran bel profilo.

Nel 1962 pubblica una raccolta di racconti intitolata “Le piccole virtù”.

In quella raccolta troviamo queste parole: Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e all’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere.

È interessante questo pensiero soprattutto in chiave educativa. Sarebbe come dire: occorre saper giocare all’attacco piuttosto che in difesa.

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Toc Toc

 

Coniugare il tempo estivo del CRE con il tema del Giubileo, all’apparenza, è un’impresa titanica. Alla fine, invece, devo confessare che non è proprio stato così. Il titolo “Toc Toc” si riferisce al desiderio di aprire la porta e nel contesto dell’Anno Santo all’esperienza di varcare la Porta Santa e vivere l’esperienza dell’incontro col Signore.

Nelle cinque settimane, durante il momento conclusivo della giornata, la preghiera, abbiamo snocciolato le parole chiave del Giubileo.

Il “Riposo” inteso non come la necessità di fare la pennichella quando si è stanchi, ma come la capacità di fermarsi a contemplare le meraviglie che il Signore opera nella nostra vita.

La “Memoria” come dimensione della custodia di ciò che viviamo per imparare a ricordarci della fedeltà del Signore.

La “Misericordia” che ci fa sperimentare il perdono di Dio e ci matura nella consapevolezza che è veramente forte che a sua volta sa perdonare.

Il “Rito” per disseminare nella nostra giornata parole e gesti che ci rendano veramente capaci di fare e dire come Gesù ha fatto e detto.

E infine la “Festa” come elemento tipico del Giubileo per ribadire che siamo un popolo pasquale, disposto a vivere con gioia anche quando la vita è faticosa, una gioia condivisa con i fratelli e le sorelle che vivono con noi.

Le giornate del CRE sono state arricchite da un programma molto bel pensato e proposto dai coordinatori e sostenuto dalla presenza generosa ed entusiasta degli adolescenti animatori.

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Sulla vecchiaia

Ho visto con interesse e piacere l’intervista a Francesco Guccini in occasione dei suoi 85 anni. Più o meno condivisibili i suoi commenti su temi generali che hanno accompagnato la sua carriera di cantautore. Verso la fine dell’intervista fa una battuta sulla vecchiaia dicendo che se potesse prenderebbe a schiaffi Seneca quando, nelle “Lettere a Lucilio”, tesse l’elogio della vecchiaia affermando che essa è una stagione piena di vantaggi.

Nelle Lettere Seneca invita a considerare l’età avanzata non come un periodo di declino, ma come una fase della vita ricca di opportunità e di saggezza.

Seneca utilizza spesso metafore tratte dalla vita agricola per dire che come i frutti di fine stagione sono i più buoni e che come il vino migliora con il tempo, così la vita offre il meglio di sé alla fine, grazie all’esperienza accumulata negli anni. Seneca esorta anche a guardare con fiducia alla morte, sempre più vicina, perché tutti comunque saremo chiamati a lasciare la scena di questo mondo. Forse questo è uno dei pensieri più profondi di Seneca, che è vissuto quattro secoli prima di Cristo: la presenza costante della morte nella nostra vita, una preziosa compagna di viaggio che ci aiuta a vivere con sempre maggio consapevolezza e gratitudine.

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Il lavoro del prete al servizio della comunione

Poveri voi, mi dice un vecchio amico che in chiesa non vi mette piede da più di cinquant’anni. Perché me lo dici? Perché voi preti siete sempre di meno e dovete lavorare di più. Beh, gli dico, se fanno tutti come te non ci sono problemi.

Sto proprio leggendo in questi giorni l’ultimo libro di Luca Diotallevi, il noto sociologo cattolico, sempre molto attento alla vicenda dei cristiani nel mondo di oggi. Il libro si intitola “La Messa è sbiadita” e a partire dalle recenti statistiche riflette sul significato attuale della partecipazione dei fedeli al momento principale della fede: l’Eucarestia.

Nella lettura trovo questo passaggio e mi viene in mente il mio vecchio amico mangiapreti: “Il carico di lavoro del prete è calato, i sacerdoti ordinati sono il 62% di quelli ordinati negli anni ‘90 ma non c’è paragone con i laici che si recano in chiesa scesi al 23,7%. Dunque, magari bisogna riorganizzare le strutture e ottimizzare le parrocchie in base al numero di abitanti ma i preti ancora ci sono, di meno ma ci sono. Ciò invece cui andiamo incontro è una forte riduzione della platea dei praticanti, soprattutto perché una parte significativa di quelli attuali è costituita da persone anziane”.

La lettura di questo capitoletto al primo momento mi ha rassicurato: siccome ci sono meno fedeli posso lavorare di meno, ho perfino pensato.

Poi invece mi sono preoccupato: perché i fedeli sono diminuiti del 23,7 per cento? Che responsabilità abbiamo come preti? E soprattutto cosa e come potremmo fare diversamente?

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Via Ozanam

Per 14 anni ho abitato la casa parrocchiale della parrocchia di San Giuseppe a Dalmine che si trova in Via Ozanam. Ogni volta che mi chiedono l’indirizzo devo fare lo spelling perché Ozanam non è un nome conosciuto. Anche recentemente mi è capitato di spiegare chi fosse questo benedetto Ozanam. Di fatto coloro che hanno scelto questo nome per la via della Casa Parrocchiale (tra l’altro è l’unica abitazione della via) hanno fatto una scelta profetica.

Chi è Federico Ozanam?

È un Beato che ha vissuto solamente 40 anni dal 1813 al 1853 e che manifesta una modernità singolare. È stato un uomo di grande cultura e di grande umanità; si prodigò per diffondere la verità della fede e lo fece soprattutto con la testimonianza della carità verso i poveri. Fu consapevole che il primo luogo della testimonianza era la propria famiglia, la moglie e la figlia.

In sintesi ci sono quattro aspetti interessanti di Ozanam.

La sua fede di rafforzò vedendo pregare Ampére, il padre dell’elettromagnetismo. Così lui stesso racconta: “Un giorno, triste e sopraffatto dai miei problemi, sono entrato nella Chiesa di Santo Stefano per cercare un po’ di conforto. La chiesa, quasi vuota, era in silenzio. Davanti all’altare c’era un uomo umilmente inginocchiato, immerso nella preghiera del Rosario. Avvicinandomi mi sono reso conto che si trattava di Ampére. Dopo aver contemplato un attimo quella scena mi sono ritirato, profondamente commosso e più vicino a Dio”.

Ozanam è il fondatore della Società di San Vincenzo. Un giorno sentì questa frase che lo colpì così tanto che avviò la conferenza di San Vincenzo per stare sempre più vicino ai poveri bisognosi di pane ma soprattutto di umanità: “Una volta il cristianesimo faceva meraviglie, ma oggi è morto. Ti vanti di essere cattolico, cosa stai facendo? Dove sono le opere che dimostrano la tua fede e chi può farci rispettare e ammetterlo?”.

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L’amore di Cristo ci sospinge

Ogni mese circa, come sacerdoti della fraternità (gruppo di parrocchie vicine) viviamo una mattinata di ritiro, un sacerdote propone una meditazione seguita dall’adorazione eucaristica.

Nelle scorse settimane la meditazione si è sviluppata su due versetti della seconda lettera di Paolo ai Corinti.

“Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi”.

C’è una sproporzione evidente tra il tesoro e la creta che lo custodisce. Come sacerdoti, ci diceva il predicatore, siamo fragili, siamo attualmente messi alla prova, eppure siamo chiamati a riconoscere la nostra vocazione: annunciare il tesoro del Vangelo, amministrare il tesoro dei Sacramenti e consegnare il tesoro della carità.

Sfidando la tentazione di credere che il tesoro siano le nostre capacità, dobbiamo ammettere che il Signore sa trarre la vita anche dalle nostre fragilità e perfino dal nostro peccato.

L’esercizio dell’esame della coscienza deve aiutarmi a distinguere la fragilità insita nella croce dalla fragilità che dipende invece dalle nostre inadempienze o dal nostro carattere infelice.

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La regola d’oro

La regola d’oro è come una mirabile sintesi di tutto il Vangelo. L’ha pronunciata Gesù nel discorso della montagna nel capitolo 7 del Vangelo di Matteo. Suona così: Tutte le cose che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatele a loro.

In realtà questa regola d’oro non l’ha “inventata” Gesù.

Sarebbero parole di una grande rabbino ebreo di nome Hillel. Uno scettico si rivolse a lui per sfidarlo perché spiegasse tutto il senso della legge ebraica nel breve tempo in cui si può restare dritti su un piede solo e il rabbino rispose: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Questa è tutta la Torah; il resto è commento. Va’ e studia».

La regola d’oro ci invita a trattare gli altri come vorremmo essere trattati noi. Se mi fa piacere essere trattato con rispetto, gentilezza e amore io per primo devo trattare così gli altri. È una regola fondamentale che in ogni ambito della vita determina un comportamento in sintonia con il Vangelo. La regola d’oro dice, con parole diverse, ciò che afferma il comandamento principale della Vangelo: ama il prossimo tuo come te stesso.

La forza di questa regola è la sua sintesi e la difficoltà più grande è metterla in pratica. Suggerisco tre passi per tentare la sua messa in pratica.

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Il cammino attraverso la foresta

Il cammino attraverso la foresta è lungo solo se non si ama la persona che si va a trovare.

Mi pesa andare a messa, mi pesa pregare e fare esercizi di meditazione spirituale, e dunque non vado a messa, non prego, non medito. Di fronte a queste affermazioni, comprensibili ma non condivisibili, mi è venuto in mente il proverbio africano citato all’inizio. Una volta in parrocchia si era proposta l’adorazione notturna e un giovanotto mi diceva: io non vado, non riesco proprio ad alzarmi di notte. Amen gli dico io, pazienza, cosa vuoi che ti dica? Alcune settimane dopo lo vedo vicino all’antenna e mi dice? Hai visto il Gran Premio? Hai visto chi ha vinto? Premetto che non seguo né le macchine né le moto. Lui commenta la gara e vedendo che non ero molto interessato stava per andar via. Lo richiamo perché mi era venuta in mente una cosa e gli dico: ma tu l’hai vista la gara? Certo assolutamente sì. Ah ok ciao ciao. Mentre andavo a casa mi è saltato in mente il proverbio africano. Sì perché la gara del GP era alle tre di notte.

Certi cammini quando si ama la meta sono leggerissimi. Gli stessi cammini, quando non si ama la meta diventano lunghi e faticosissimi.

La questione dunque è di imparare a misurare la fatica non a partire dal cammino ma a partire dalla meta.

Quando un figlio è ammalato i genitori lo vegliano tutta la notte e magari il giorno successivo vanno a lavorare e non diranno mai che questa è una fatica.

Insomma quando si ama si sopporta e quando non si ama si abbandona.

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Benedetto rimprovera due monaci

 Nel chiostro centrale del monastero di Monte Oliveto c’è un bellissimo ciclo che racconta le storie di san Benedetto. Il monastero si trova vicino a Siena ed è incastonato in un paesaggio incantevole nelle Crete senesi. Un monaco di Bergamo, Dom Andrea, ci guida nella visita del monastero soffermandosi sugli affreschi più importanti della vita del Fondatore.

Gli affreschi sono stati realizzati da Luca Signorelli e da Sodoma a alla fine del 1400 e all’inizio del 1500. Tra le scene più belle di Luca Signorelli, il grande pittore di Cortona famoso soprattutto per aver realizzato la Cappella di san Brizio nel Duomo di Orvieto, c’è sicuramente quella che racconta “Come  san Benedetto dice alli monaci dove e quando avevano mangiato fuori dal monastero”.

Nella scena si vedono due monaci intenti a un pranzo in una locanda e, sullo sfondo, Benedetto, circondato dai monaci li sgrida per aver violato la Regola, che appunto impedisce ai monaci di uscire dal convento per i pasti.

Questo affresco è importantissimo oltre che per ciò che racconta, per il fatto che è citato da tutti i libri di storia dell’arte per l’evoluzione della prospettiva geometrica del XV secolo.

È un episodio di trasgressione dei due monaci.

Nell’interno della locanda si vedono due graziose domestiche indaffarate a servire i due monaci.

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