Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

il sito web della comunità parrocchiale San Giuseppe di Dalmine

Precarietà e preghiera

Tra i tanti termini utilizzati in questo periodo, emerge la parola “precarietà”.  Con questo termine si indica prevalentemente la carenza di occupazione lavorativa ma anche, in senso più esteso, per nominare una situazione di incertezza e instabilità.

La precarietà è quella condizione propria di chi sa di non essere sempre e totalmente autosufficiente. Precario significa incerto, non sicuro, che è soggetto a subire, da un momento all’altro, un cambiamento.

Precaria è la condizione umana perché è provvisoria ed incerta, perché non ha molte garanzie di stabilità o di continuità. Vivere significa essere legati ad un contratto a termine.

Ma quale è l’etimologia del vocabolo “precario”? Deriva dal verbo latino «prex, precis» che letteralmente significa «pregare, supplicare».

Dunque la situazione “precaria” è la condizione propria in cui si trova colui che prega.

Il tempo di precarietà deve essere innanzitutto tempo di preghiera, cioè di abbandono fiducioso nelle mani di Dio.

Tuttavia il riconoscersi precario e il pregare non sono due fasi, bensì sono la stessa cosa. Cioè la consapevolezza della precarietà è già preghiera, è già porsi davanti a Qualcuno che mi può aiutare.

Come il neonato: non è che prima avverte la precarietà, il bisogno e successivamente piange e supplica un aiuto. Il bisogno e il pianto sono la stessa cosa.

La precarietà e la preghiera sono la stessa cosa. A condizione di essere umili e di cercare aiuto. A condizione di mettersi davanti al Signore così come siamo, con i nostri limiti e le nostre fragilità.

In questo tempo appare con molta evidenza che anche come cristiani siamo precari. Per tanti secoli la chiesa si è sentita stabile e sicura, credendo di avere una garanzia contro ogni forma di precarietà. Di fatto Gesù stesso aveva chiamato i suoi discepoli, la chiesa, “piccolo gregge”, non impero indefettibile e imperituro.

Si, anche la chiesa che si è sempre sentita potente e garantita oggi deve prendere atto che come cristiani siamo sempre più ridotti a minoranza e circondati dall’indifferenza, e le comunità si riconoscono sempre più fragili, deboli, precarie.

Ma essere precari non significa essere insignificanti. Significa pregare, appunto. La forza del cristiano, potremmo dire, parafrasando san Paolo, è la sua coscienza di essere precario: quando sono debole, è allora che sono forte. Questa è la testimonianza che siamo chiamati ad offrire al mondo, come una piccola luce posta sopra il monte, o come un pugno di sale nella pasta.

La chiesa cioè non è chiamata ad esibire se stessa e la sua potenza, ma ad indicare il mistero di Cristo e la sua forza redentrice.

Don Roberto



in Storie di fede e Riflessioni