Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

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Io sono il capitano della mia anima

A volte la resistenza è proprio una virtù indispensabile. Penso a chi vive da anni una malattia inguaribile, a chi si trova oppresso dalla violenza, a chi si sente perseguitato da ogni forma di ostilità. A chi deve sopportare fatiche più gravi delle proprie forze. Penso a chi sta vivendo momenti cupi e di disorientamento.

Ho letto una poesia che contiene una forza impressionante. Una poesia che, senza essere eretico l’avrebbe potuta scrivere Cristo stesso o comunque tutti i cristi che hanno una vita di stenti.

Si tratta di una poesia scritta da William Ernst Henley, un poeta inglese nato nel 1848 e morto a 55 anni nel 1903. La sua è una storia di sofferenza: a 12 anni si ammala gravemente di tubercolosi che gli costò l’amputazione di una gamba.

Di lui un suo carissimo amico scrive che era “un grosso, sanguigno individuo dalle spalle larghe con una gran barba rossa e una stampella; gioviale, sorprendentemente arguto e con una risata che scrosciava come musica; aveva una vitalità e una passione inimmaginabili; era assolutamente travolgente”.

Nonostante la malattia non gli diede tregua nemmeno per un istante aveva una forza d’animo e una capacità di resistenza incredibili. Nel letto dell’ospedale scisse questa poesia che è senz’altro la più conosciuta tra le sue opere. Henley invece di affliggersi reagisce con coraggio e con speranza, non si dispera per ciò che ha perso e lungo il suo calvario quotidiano continua a guardare avanti e decide di non lasciare a niente e a nessuno, se non a lui stesso, il controllo della sua vita: io sono il capitano della mia anima!

La poesia si intitola “Invictus” che significa “non vinto”.

Ho anche scoperto che questa era la poesia che ogni giorno leggeva, per darsi coraggio, Nelson Mandela durante  la sua prigionia.

Ecco il testo di questa bellissima e luminosa poesia:

 

Dal profondo della notte che mi ricopre

nera come il pozzo da un polo all’altro.

Ringrazio gli dei qualunque essi siano

per la mia indomabile anima.

Nella stretta morsa delle avversità

non mi sono tirato indietro né ho gridato.

Sotto i colpi d’ascia della sorte

il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime

incombe solo l’orrore delle ombre.

Eppure la minaccia degli anni

mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,

quanto piena di castighi la vita,

Io sono il padrone del mio destino:

io sono il capitano della mia anima.

 

Sicuramente il poeta inglese Henley conosceva le parole che san Paolo, nel momento della prova, scriveva ai cristiani di Corinto: “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita”.

Cioè: ognuno di noi ha qualcosa di solido dentro di sé, una forza che resiste a qualsiasi dolore. Anche quando il corpo è ferito e crolla, lo spirito può rimanere integro.

La conclusione della poesia è un vero inno alla libertà e alla responsabilità. Prendermi in mano le redini della mia vita e guidarla con coraggio verso la vera Vita. Solo così sarò “non vinto”, invictus”, più forte di ogni avversità e di ogni paura, perché in me vince la forza della vita di Cristo.

Don Roberto



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