Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

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Sessanta anni fa ho conosciuto Padre Pio (parte I)

Ricordi di Leandro Carboncini

21 novembre 2009

 

padre pio

INDICE

1. Perché ho cercato Padre Pio. Io precario degli anni cinquanta

2. Il viaggio e l’incontro a S. Giovanni Rotondo

3. I viaggi a S. Giovanni Rotondo

4. Il mio matrimonio

5. I gruppi di preghiera

6. La morte di Padre Pio

7. Altri ricordi

8. Il Padre è vicino a noi

 

 

 

1. Perché ho cercato Padre Pio. Io precario degli anni cinquanta

Avevo venticinque anni e vivevo ancora a Viareggio dove sono nato e cresciuto.

Non avevo sentito parlare e non conoscevo Padre Pio da Pietrelcina. L’occasione avvenne quando,nell’estate del 1950, ancora in cerca di una sistemazione stabile di lavoro dato lo stato della nostra industria, lavorando in estate in un grande albergo del luogo, mi sono ammalato.

Visitato dal mio medico e amico di famiglia, venni sottoposto a una visita specialistica dal professore Falconelli, direttore dell’ospedale di Cinisello di Pisa, esperto in malattie polmonari. La persona era nota perché fu il primo a soccorrere il figlio di Mussolini, Bruno, quando, in una prova di collaudo come pilota, cadde con l’aereo, un quadrimotore Piaggio costruito a Pontedera e morì.

Il professore accertò la gravità del mio caso ma mi rassicurò sull’esito della malattia. Mi dette le cure da fare alle quali mi attenni con scrupolo. Fui uno dei primi a sperimentare la streptomicina, antibiotico appena scoperto in America.

Ovviamente il mio morale era a terra, anzi sottoterra, sospesi il lavoro e mi misi a stretto riposo fino alla fine della “stagione”. Stavo molto a letto e mi alzavo solo per i pasti. Dopo un paio di mesi i medici mi fecero un controllo radiografico e mi dichiararono clinicamente guarito, anche se estremamente debilitato.

Mia madre era molto preoccupata, ma continuava a lavorare e a pregare.

Parlò un giorno di me con una amica di chiesa, la signora Angioletta Gariboldi, vedova di uno scultore che aveva lavorato in America latina, e cittadina italo-svizzera, conosciuta durante il passaggio della guerra, e questa le dette il libro su Padre Pio, scritto dal medico dr. Festa di Bologna. Inoltre le suggerì di scrivere al Padre perché pregasse per la mia guarigione completa.

Lessi anch’io il libro e ne rimasi entusiasta. Festa riferiva dei suoi esami sulle “stimmate” e dei fatti miracolosi che si verificavano tramite Padre Pio: bilocazione, piaghe sul suo corpo,mani, piedi e costato, guarigioni ecc.

Decisi di scrivere a Padre Pio con la promessa, in caso di guarigione, di andare a ringraziarlo di persona.

Mi arrivò la risposta da parte di un frate del convento, suo confratello, il quale mi assicurava le preghiere per ciò che avevo chiesto.

In quel periodo pregavo molto e leggevo libri di santi, tra i quali i “Fioretti di San Francesco”. La mia situazione era preoccupante: con la salute compromessa e senza un lavoro fisso. Dopo le elezioni del “Quarantotto”, avevo perso quello ai cantieri navali Picchiotti e lavoravo stagionalmente in estate in albergo dove mia madre era custode e guardarobiera.

Eravamo in agosto e una notte padre Pio arrivò in bilocazione, mi sentii accarezzare e svegliatomi, sentii profumo di rose. Io non lo vidi. Chiamai mia madre che dormiva nella camera accanto, ma lei non sentì niente.

Capii che la guarigione sarebbe arrivata.

Finita la “stagione”, a settembre ripresi ad uscire e in ottobre cominciai a pensare al viaggio per San Giovanni Rotondo.

 

2. Il viaggio e l’incontro a S. Giovanni Rotondo

La signora Gariboldi mi venne ancora in aiuto: convinse Padre Vittorino, un francescano custode del cimitero di Viareggio, a venire con me e gli pagò il viaggio.

A noi si unì il sagrestano della parrocchia di San Francesco, del quale non ricordo il nome, e partimmo. Prendemmo il treno per Roma e da qui il treno che ci portò a Foggia (sono circa 700 Km). Dalla stazione prendemmo la corriera e dopo circa un’ora di viaggio arrivammo a San Giovanni Rotondo, località a ca. 500 m di altezza

slm. La corriera ci portò sul piazzale del Convento di Padre Pio dove Padre Vittorino rimase ospite dei frati.  Io e il sacrestano andammo alla pensione “Villa Pia”, poco più in basso, sullo stradone che dal paese porta al convento. Qui ci dettero una camera che, però, non aveva luce elettrica. Ci arrangiammo con delle candele.

Alla mattina ci alzammo alle quattro e ci portammo davanti alla chiesa del convento che si aprì alle quattro e mezzo; entrammo e seguendo gli altri pellegrini ci portammo vicino all’altare laterale di San Michele dove normalmente celebrava Padre Pio. Allora non c’era ancora la chiesa grande, era la chiesina originaria.

Alle cinque esatte Padre Pio arrivò dalla sacrestia per celebrare la S. Messa.

Io ero vicino alla balaustra e lo potevo osservare bene.  Il sacerdote allora celebrava ancora con il viso rivolto all’altare. La Messa durò oltre le sei, senza predica né distribuzione della comunione. Noi stemmo in piedi e in ginocchio durante la consacrazione. Padre Pio si fermava e si concentrava a lungo nei punti centrali della S. Messa, Consacrazione e Comunione; stava con la testa rivolta verso l’alto e sembrava che parlasse con qualcuno. Per ricevere la comunione si ritornava in chiesa e lo stesso Padre Pio la distribuiva all’altare maggiore. Noi dovevamo rimanere digiuni fino alle undici. Qualcuno nel frattempo ritornava a letto in albergo. Noi, che eravamo qui per la prima volta, occupammo il tempo a parlare con gli altri pellegrini per sapere come si svolgevano le preghiere e le confessioni.

Ci prenotammo per la confessione da Padre Vincenzo o da Padre Giustino, questo non ricordo bene; per la prenotazione delle donne, che erano più numerose, c’era Padre Paolo. A San Giovanni allora arrivavano poche persone, rispetto ad oggi. In un paio di giorni potemmo incontrare il Padre e rientrare a casa, naturalmente con rimpianto.

La confessione avveniva in sacrestia, in un angolo, dietro un telo bianco dove c’era un inginocchiatoio per il penitente e una sedia per il confessore.

L’attesa avveniva in corridoio in silenzio e un frate chiamava in ordine di prenotazione.

La confessione era l’unico modo per poter parlare con Padre Pio. Dopo l’accusa dei peccati e aver ricevuto l’assoluzione si poteva dire qualcosa, chiedere pareri o preghiere particolari.

Quando toccò il mio turno, e non dico con quale trepidazione passai quel tempo di attesa, entrai e mi inginocchiai; stavo per confessare i peccati quando, invece, cominciò lui a farmi delle domande.

Io mi ero confessato prima della partenza nella mia parrocchia e nella preparazione per la confessione con il Padre avevo “messo assieme” tre mancanze non gravi che andavo a ripetere mentalmente per non dimenticarle.

Padre Pio me le chiese nell’ordine che io andavo a ripetere nella mente e quando mi chiese l’ultima si fermò. A me toccava solo dire “Sì” !

La cosa ovviamente mi impressionò.

Avuta l’assoluzione, allora potei parlare e gli dissi: “Padre, ero malato e sono guarito, sono venuto per ringraziarla”

Padre Pio mi rispose: “E ringraziamo il Signore!” mi fece una carezza e mi benedisse.

padre pio con fratiNei giorni in cui ci intrattenemmo a San Giovanni Rotondo non abbandonammo mai la zona del convento, il piazzale antistante e la cartoleria Abresh lungo il viale, dove vendevano cartoline con l’immagine del Padre e oggetti religiosi, in gran parte rosari, che poi il Padre benediceva quando si incontrava nel corridoio del convento.

Ci incontravamo anche con Padre Vittorino che usciva dal convento e ci raccontava degli incontri con il Padre che avvenivano in genere in refettorio durante i pasti. Ci diceva che Padre Pio mangiava pochissimo e ci raccontò anche che qualcuno dei presenti a tavola una volta chiese al Padre cosa ne pensasse degli UFO, dei dischi volanti che molti dicevano di vedere nel cielo e come riportavano, in quei tempi, anche gli organi di informazione.

Il Padre rispose seccamente: “Se fossero prodotti dell’America o della Russia sicuramente i servizi segreti l’avrebbero scoperto!” Eravamo nell’ottobre del 1950.

Nel pomeriggio, verso le quattro, il Padre recitava i vespri e il rosario e poi dava la benedizione con il Santissimo. Alla sera ci portavamo all’esterno del convento verso Sud, sul prato, per salutare il Padre che si affacciava alla finestrella della sua cella sventolando un fazzoletto bianco per rispondere al nostro saluto.

E così finiva la giornata perché andavamo presto a letto per alzarci alle quattro di mattina.

 

3. I viaggi a S. Giovanni Rotondo

La vita a San Giovanni R. si svolgeva con un ritmo dettato dal Padre, ogni volta che si ritornava si trovavano le stesse cose e anche le stesse persone.

Durante la giornata passavamo il tempo libero da impegni di preghiera, a parlare con gli altri che raccontavano le loro esperienze e a poco a poco venivamo a conoscere il “mondo” di Padre Pio e si facevano nuove conoscenze che nel tempo diventavano amicizie.

Tra gli altri ricordo Tonino Dall’Oglio della zona di Fidenza, che si tratteneva a lungo a San Giovanni R., la signora Fiorellini, una maestra elementare che, arrivata qui molti anni prima, si stabilì e costruì una sua casa lungo il viale non distante dal convento.

ospedaleConobbi pure Enzo Bertani, economo della fondazione Casa sollievo della sofferenza voluta da Padre Pio, che in questi giorni è venuto qui a Seriate a presentare il libro da lui scritto sul Padre.

A quel tempo c’erano già le fondamenta dell’Ospedale che poi è divenuto un centro di rinomanza mondiale. Conobbi il costruttore Angelo Lupi e il dr. Sanguinetti medico e direttore sanitario dell’Opera, consulente e amico di Padre Pio.

Al mio rientro a Viareggio raccontai a tutti, parenti e amici, le mie esperienze e naturalmente modificai il mio comportamento verso le pratiche religiose con maggior impegno e continuità, come l’ascolto quotidiano della S. Messa e la recita del Rosario.

Anche mia madre, inizialmente un poco scettica, prima della fine dell’anno, (era l’anno santo del ’50), approfittando di un pellegrinaggio a Roma della parrocchia, dopo, arrivò a San Giovanni con l’amica Pia Moriconi, madre di un Gesuita, ma non riuscì a confessarsi dal Padre per la numerosa presenza di donne del posto che avevano la precedenza. Ascoltò la S. Messa e ne riportò comunque una buona impressione.

Dall’ottobre ’50 al giugno’51, andai tre volte dal Padre. Oltre a quello della salute avevo altri problemi da risolvere, in primo luogo il lavoro, che risolsi con il suo aiuto in modo definitivo due anni dopo: venni assunto alla “Dalmine” di Massa, zona industriale. Le altre due volte portai con me gli amici Luigi Catelli e Giacomo Avaro.

A chi ha conosciuto Padre Pio, egli è entrato dentro il cuore e non può fare a meno di parlarne. Diventa un suo apostolo. Padre Pio diventa come un secondo Angelo custode!

La mia zia Sestilia, sorella di mia madre, incontrando il Padre Vittorino al cimitero venne da lui informata della sua esperienza con il Padre e del viaggio appena rientrati a Viareggio.

Nel tempo sono ritornato a S. Giovanni molte volte; ritengo, quando il Padre era ancora in vita, almeno una quindicina, riportando sempre un forte incremento alla mia vita di fede. Per me era come fare un corso di esercizi spirituali.

Ricordo che una volta ero stato quattro anni senza andare dal Padre; nella confessione gli chiesi perdono e lui, ridendo, mi diede una leggera carezza sulla spalla e mi disse: “Ma va, si viene quando si vuole!

Da S. Giovanni R. ogni volta che andavo mandavo ad amici e parenti cartoline che facevo prima benedire dal Padre.

E’ stato commovente, l’anno scorso incontrare casualmente Donatella, nipote di una cugina di mia madre, Assuntina Mazzantini, che vive a Limite sull’Arno paese dei miei genitori, la quale conservava gelosamente una cartolina che io avevo mandato da S. Giovanni R. a sua nonna, su richiesta di mia madre, una cinquantina di anni fa.

Padre Pio nella confessione era molto severo e più volte ha mandato indietro chi non era sufficientemente preparato.  Lui leggeva all’interno delle coscienze.

Da Padre Pio accompagnai diverse persone, anche il mio diretto superiore, l’ing. Giorgio Brughiera dirigente della Dalmine, quando, di ritorno da un viaggio di lavoro allo stabilimento di Torre Annunziata, deviammo per Foggia. In questo caso cedetti a lui la mia prenotazione per la confessione.  Fu l’unica volta che non potetti confessarmi dal Padre dal momento che ripartimmo subito. Comunque, come era consuetudine, gli baciai la mano e ricevetti una benedizione.

A San Giovanni R. quando si andava, in attesa del turno per la confessione, si viveva all’ombra del Padre. Lo si aspettava o in corridoio o in sacrestia dove si preparava per le funzioni o per le confessioni. Lui passava solitamente tra due ali di persone (uomini se in sacrestia) e li benediceva tutti, dando anche la mano, protetta dal mezzo guanto per riparare le stimmate, per il bacio.

Quando passava per il corridoio del convento solo allora c’erano anche le donne.  In questo caso spesso faceva roteare il cordone che portava alla vita per allontanare le più invadenti.

Ricordo che una volta mi trovavo con gli altri in attesa in sacrestia, salii le scale che portavano alle celle per incontrarlo prima degli altri, ma quando scese mi mandò via in malo modo e fece bene perché stavo invadendo la sua privacy per futili motivi.

Una delle prime volte in cui sono andato a San Giovanni R., dopo la confessione, chiesi al Padre, come mi avevano suggerito alcuni pellegrini più esperti, di essere accolto come suo figlio spirituale. Il Padre mi disse di sì ma aggiunse: “Ricordati però di non farmi fare brutte figure!

Da quando ho conosciuto il Padre in molte occasioni ho avvertito il suo aiuto e spesso l’ho invocato nella preghiera e mai invano, anche quando era vivo.

Una volta per lavoro ero a Roma. Decisi di andare a trovarlo e alla stazione presi il treno per Foggia anziché quello per tornare a Milano, dove ero stato trasferito dalla società.

Salito sul treno, percorsi il corridoio per cercare uno scompartimento adatto, anche perché il viaggio durava quattro ore.

Nel passare davanti a uno scompartimento quasi vuoto vidi un frate che era seduto vicino al finestrino.  Pensando che la cosa fosse di buon auspicio, entrai e mi sedetti davanti a lui, lo salutai e gli dissi che andavo da Padre Pio. Lui non disse niente. Gli chiesi il suo nome e mi disse Padre Carmelo.

Lungo il viaggio parlammo di altro e ovviamente avemmo anche momenti di silenzio. Nessuno entrò nello scompartimento e facemmo il viaggio da soli.

Arrivati a Foggia ci salutammo e ognuno prese direzioni diverse.

Arrivato con il pullman a S. Giovanni Rotondo, distante da Foggia quaranta chilometri, scesi all’albergo S. Michele, presi la camera come al solito, depositai la valigia e mi recai in chiesa per pregare e vedere se era possibile prenotarsi per la confessione con il Padre. Grande fu la mia meraviglia quando vidi in sacrestia Padre Carmelo! Chiesi a qualcuno chi era quel frate e mi fu risposto: “È il padre guardiano”, in parole povere il superiore di Padre Pio. Io interpretai questo fatto come un intervento del Padre che mi aveva fatto accompagnare addirittura dal proprio superiore!

Chi frequentava san Giovanni Rotondo aveva quasi sempre dei fatti straordinari da raccontare come ad esempio dei profumi con i quali il Padre faceva sentire la sua presenza. Alcuni sentivano odore di acido fenico e in questo caso si diceva che preannunciava penitenza.

Padre Pio mi ha insegnato, non a parole ma con l’esempio, a prendere seriamente i dettami della fede e le pratiche religiose e a pregare, come faceva lui con insistenza e in silenzio. Si diceva che recitasse cento rosari al giorno!  Aveva sempre la corona in mano anche durante le confessioni e diceva che quella era la sua arma!

Naturalmente da parte sua c’era anche l’offerta delle sue sofferenze, ma questo solo lui lo sapeva, anche se a qualcuno pare abbia detto: “Quanto mi sei costato…

Si trattava di persone convertite o guarite da malattie.

 

(continua a leggere la parte II)

 



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