Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

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Ultimi articoli pubblicati

L’importante è che siamo qui

Ogni volta che mi reco alla Casa Accoglienza Anziani ho sempre qualcosa da imparare. Esattamente come quando sto in mezzo ai bambini.

Mi è capitato durante la Messa di un martedì mattina.

È iniziata la proclamazione della prima lettura e sento, perché quando gli anziani dicono qualcosa non parlano, gridano: Pota ghe sente mia! dice una nonna alla sua vicina. E questa con una pacatezza regale le risponde: Fa negot, preocupet mia, l’importante l’è che ns’è chè.

Mi è subito venuto in mente Pietro sul Tabor: che bello per noi essere qui… facciamo tre tende…

La Messa non si capisce con il cervello ma si gusta con una presenza che si abbandona ai segni della liturgia. Se penso a quando ero bambino con tutta onestà non ricordo nessuna predica dei miei preti, non ricordo di avere avuto mai il cuore per qualcosa che si sia impresso nella mia testa. Ricordo solo le candele, i fumi dell’incenso, i profumi dei fiori, le luci, i volti di tanta gente che pregava. Il potere della liturgia non sta in quello che noi comprendiamo con la testa, ma in tutto quello che segna i nostri sensi.

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Il ricordo di un dolore

Stiamo entrando nei primi giorni di Novembre, giorni in cui la nostra memoria si riempie degli innumerevoli volti di chi abbiamo amato e ci ha preceduto nel grande Passaggio, di amici, parenti benefattori.

Sono giorni di sofferenza e di speranza che siamo chiamati ad attraversare con equilibrio e con fiducia.

Recentemente ho accompagnato un professore a visitare l’Accademia Carrara. L’avevo vista tantissimi anni da seminarista. Molte le opere che colpiscono. Ma ce n’è una che ha letteralmente rapito i miei occhi. È una tela di Pellizza da Volpedo  intitolata “Il ricordo di un dolore”. Se l’avevo già vista non lo ricordo, probabilmente non mi aveva colpito così tanto. Pellizza è famoso per “Il quarto stato”, l’icona sociale della fine dell’Ottocento.

Passeggiando nelle sale dell’Accademia mi ritrovo di fronte a quest’opera e a lungo la contemplo.

Scrive il pittore stesso: «Tornato immediatamente da Parigi colpito dalla morte di mia sorella Antonietta, volli ricordare il mio dolore con una mezza figura intitolata appunto “Il ricordo di un dolore”».

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Te l’hanno spiegata male

In queste settimane i riflettori si sono prepotentemente riaccesi sul conflitto in Terra Santa. La nomina del Cardinal Pizzaballa ha certamente sollecitato nei bergamaschi la stima per la sua persona e la sua missione ma anche il dolore per il conflitto e per le vittime.

Nel frattempo sto leggendo “La sfida di Gerusalemme”, l’ultimo volume di Eric-Emmanuel Schmitt, un viaggio commentato dall’arguzia dell’autore. Nel cuore del volume si sofferma ampiamente sulla questione del muro di Betlemme e della tragedia del conflitto. La sua riflessione prende le mosse da un’affermazione di un suo amico ebreo: “Se capisci qualcosa della situazione odierna a Gerusalemme significa che te l’hanno spiegata male”. Tutto è complicato. Il muro sancisce un fallimento, incarna l’impossibilità di arrivare alla pace. Schmitt sostiene che la tragedia della Terra Santa sia lo scontro tra due legittimità, due blocchi ostili che si affrontano “avendo entrambi ragione”. Non si tratta cioè di una battaglia tra bene e male, tra verità e menzogna, tra i buoni e i cattivi. Israele ha ragione, la Palestina ha ragione. Questa logica è tragica perché, secondo Schmitt, dato che nessuno ha ragione o torto, la forza si sostituisce al dialogo e al diritto, il problema si ingigantisce, la violenza si moltiplica alla potenza e si rimane senza via d’uscita.

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Una mano lava l’altra

Per lavarmi una mano devo usare l’altra. Anche nelle attività più semplici è sempre vantaggioso aiutarsi a vicenda. Primo perché insieme possiamo raggiungere risultati importanti e poi perché si scopre di essere complementari: alla fine se tu dai una mano a me io ne dò una a te.

Questo modo di dire è antichissimo, lo usavano già gli antichi romani: “manus manum lavat”. È Petronio che la usa nel Satyricon e la usa in modo ironico, tendente all’omertà, quasi come dicesse: “tu non dire nulla di quello che ho fatto e vedrai che avrai il tuo vantaggio”.

Questa espressione trova però la sua completezza nei promessi sposi e precisamente nel capitolo 14 quando un tale, aiutato da Renzo cita questo proverbio con un’aggiunta importante: “Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia. Di che cosa? – diceva colui: – una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? – E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un’altra domanda.

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Credenti non praticanti

Così si intitola un saggio scritto da una teologa francese che si chiama Valerie Le Chevalier. Un testo molto interessante che analizza le “pratiche” differenti dei cristiani europei e francesi in particolare.

La tesi sostenuta nel saggio è formulata nell’introduzione e potrebbe essere riassunta in queste domande: i numerosissimi cattolici battezzati che, per diverse ragioni non praticano la domenica, possono essere considerati, nonostante tutto, dei “fedeli” e perciò essere una buona notizia?

Il piccolo resto dei praticanti come guarda i non praticanti? Come sentirsi un’unica famiglia di credenti, malgrado i modi diversi di frequentare?

L’autrice parte da un famoso articolo francese scritto nel 1933 dal sociologo religioso Le Bras. Si, avete letto bene: nel 1933!

Un testo che presenta uno schema di classificazione delle pratiche religiose. Tale schema per Le Chevalier è quanto mai attuale e rappresenta uno strumento ancora valido per l’analisi della questione.

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Eros e Thanatos

Tra le tante acrobazie che un prete deve fare una tra le più difficili è di saltare immediatamente dalla celebrazione di un matrimonio e quella di un funerale, o viceversa. Mi è capitato recentemente: al cimitero per la benedizione delle ceneri di una nostra sorella e poi via di corsa per la celebrazione di un matrimonio.

Quel pomeriggio, con i due cortei, uno colmo di mestizia e di dolore e l’altro sorridente e pieno di entusiasmo, ha risvegliato in me la memoria di un episodio “grottesco” di molti anni fa. Nel 1998 mi recai in Bolivia in visita ad un caro amico ordinato sacerdote con me e, in quegli anni, missionario a La Paz. Giunto in Bolivia passai qualche ora al pronto soccorso per via della carenza dell’ossigeno dei quattromila metri di La Paz. Nel pomeriggio volli presenziare alla messa nella parrocchia e rimasi a dir poco sorpreso quando vidi le due navate della chiesa ben differenziate dai colori e dagli abiti. A destra i colori di un matrimonio e a sinistra i colori di un funerale. Semplicemente, per un errore di programmazione che il parroco aveva commesso, erano state fissate nella stessa Messa un matrimonio ed un funerale. Il mio amico è stato bravissimo nel rimediare a quella dimenticanza proponendo una riflessione di sintesi sui due temi e parlò di Eros e Thanatos, le due figure della mitologia greca che indicano i due elementi fondamentali della vita, profondamente contrapposti tra loro.

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La gente

Cosa penserà la gente? Questa domanda la senti ripetere ogni qual volta accade qualcosa che può mettere a repentaglio la reputazione propria o dei propri cari. Ma chi è la gente?

“La gente chi dice che io sia?” Anche Gesù pare si sia preoccupato del pensiero della gente. Non certo per il desiderio di avere il consenso popolare. Anzi proprio per il dissenso popolare sarà condannato a morte. Gli interessava il giudizio della gente proprio per misurarne l’inconsistenza e per far risaltare la risposta di Pietro che si erge come albero rigoglioso in mezzo al deserto dell’incoscienza: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Ma chi è la gente?

A volte capita che arrivi qualcuno a dirmi: sai la gente dice che… Il più delle volte riporta esclusivamente un parere del tutto personale. Come fa uno a farsi portavoce della … gente?

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Insieme

Ogni cambiamento ha bisogno di un intervento educativo che coinvolga tutti. Come afferma il noto proverbio africano: per educare un bambino serve un intero villaggio.

Il nostro Vescovo ha proposto una lettera alla Diocesi per raccogliere alcune indicazioni pastorali per il prossimo anno. Il titolo è “Servire la vita, servirla insieme”.

Noi non siamo abituati a lavorare insieme.

Io devo confessare che spesso, per fare le cose più alla svelta e meglio, così almeno presumo io, le faccio da solo, senza consultazioni. Ma mi rendo conto che questa cattiva abitudine non fa crescere nulla e nessuno.

Nel titolo della lettera del Vescovo credo che la parola chiave sia proprio “insieme”, una parola semplice, ma molto impegnativa. Fare le cose insieme è più faticoso, ma è più bello.

C’è un altro proverbio usato in Africa che dice. “Se volete andare in fretta, andate da soli; se volete andare lontano, andate insieme”.

Il Vescovo ci esorta dunque a servire la vita insieme. Ma cosa significa stare insieme? Vivere insieme?

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La vocazione

C’è sempre una visione un po’ distorta intorno a questa parola. Mi ha sempre colpito il confronto di due modelli che compaiono nella Bibbia e che possono rappresentare un aiuto a dipanare dubbi e perplessità circa il tema della vocazione.

Il primo modello è quello del profeta Geremia e il secondo quello del profeta Isaia. Si tratta dei due principali profeti della Sacra Scrittura.

Geremia è l’uomo di Dio che visse a Gerusalemme nel 650 A.C. circa, si fece portavoce della Parola del Signore per la conversione del popolo. In pratica nessuno lo ascolta, muore lapidato dai suoi connazionali che non ne potevano più dei suoi rimproveri. Nel primo capitolo del suo libro Geremia racconta la storia della sua vocazione. Gli dice il Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato, ti ho stabilito profeta delle nazioni. Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti”. Potremmo dire che quella di Geremia è una vocazione diretta, anzi direttissima. Il profeta accoglie la volontà del Signore che gli viene comunicata in modo chiarissimo, senza ombra di dubbio.

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Fate questo in memoria di me

Ogni sacerdote deve redigere un diario quotidiano relativo alla celebrazione delle Messe indicando l’intenzione per la quale si celebra, l’offerta ricevuta ed il luogo della celebrazione.

In questi giorni di fine estate sto dando uno sguardo alla colonna del “dove” e leggo di aver celebrato in luoghi più disparati: in parrocchia, ovviamente, nella Casa Accoglienza Anziani, al cimitero. Ho celebrato al mare sulla spiaggia con gli adolescenti, la chiesa l’ha progettata e costruita il Signore stesso: le pareti sono colline, l’abside il mare e il soffitto il cielo. Ho celebrato a Lourdes nella grotta di Massabielle con i giovani della diocesi nella tappa verso la GMG ed il giorno successivo  in una sala d’albergo con il Vescovo e pochi sacerdoti. Ho celebrato a Sao Mamede, il magnifico paese in cui le famiglie hanno fatto i salti mortali con il sorriso sul volto per accogliere i giovani di Bergamo nelle case, nelle palestre e nelle scuole, lì con il Vescovo e una sessantina di preti prima di raggiungere Lisbona, per tre giorni abbiamo celebrato l’Eucarestia dopo le catechesi. Abbiamo celebrato sulla spianata della Grazia a Lisbona con il Papa nella GMG, lì c’era davvero il mondo. Abbiamo celebrato a Barcellona, nella basilica, unica e straordinariamente bella della Sagrada Familia, a conclusione della GMG. Ho celebrato nei monasteri benedettini della Germania, del Belgio, della Francia e della Svizzera in un viaggio di preghiera e di condivisione con i monaci; messe curate nei particolari della liturgia e dei canti, celebrazioni intrise di gregoriano in chiese antichissime. Ho celebrato nel Carmelo di Santa Teresina di Lisieux, silenzio e nascondimento.

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Due anime nella stessa Chiesa

Vedendo la grandezza dei monasteri benedettini e la piccolezza di Lisieux ho pensato che la grazia di Dio è come l’acqua che fa crescere frutti diversi. La presenza massiccia dei monaci che oltrepassa i secoli e la via dell’infanzia che fa scomparire Teresa. La centralità dei giganti santi e il cuore missionario della ragazza del Carmelo. La Grazia è la stessa ma i frutti sono diversi.

La Chiesa è proprio bella perché l’unità e la diversità stanno insieme in armoniosa sintesi.

Nell’ellisse del viaggio europeo, pensato da Rumiz e replicato da noi, dilettanti, in visita ai monasteri, dall’ Abbazia di Wandrille, abbiamo scelto di fare una deviazione a Lisieux.

La Santa del primo ottobre chiama ad un incontro con l’anima femminile e innocente della chiesa. Se nei monasteri incontriamo uomini, a volte rudi e senza fronzoli, a Lisieux incontriamo una donna sorridente, tenera e silenziosa. La sua grande lezione si raccoglie intorno a tre aspetti. L’esperienza personale dell’amore de Signore, fare straordinariamente bene le cose ordinarie e spargere nel mondo il buon profumo di Cristo, anche se si vive raccolti nella cella di un convento.

In obbedienza a Benedetto i monaci si occupano di preghiera e di lavoro dando una testimonianza concreta di una vita bella, buona e felice. Teresa come una bambina su nasconde, gioca con Dio e inventa una santità “normale”. In ogni monastero quando muore una sorella la superiora di impegna a riassumere in una paginetta la vita della congiunta. Accadde che una sua consorella una volta si lasciò scappare questa domanda: Cosa dirà la superiora al funerale di Teresa? Per dire che nella sua vita pareva non esserci proprio nulla di significante.

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Il genio umano e spirituale di Blaise Pascal

In questi giorni sto spiluccando un libro di Pascal, l’illustre matematico e scienziato, il fine pensatore, filosofo e teologo vissuto in Francia (1623 – 1662), autore di un volume intitolato “Pensieri”, pubblicato dopo la sua morte, una raccolta di riflessioni, mille domande esistenziali e altrettanti tentativi di trovare risposte. Pascal rimase orfano di madre quando aveva appena tre anni e suo padre decise di occuparsi personalmente dell’educazione dei suoi tre figli. Quando era adolescente Pascal costruì la sua prima “macchina calcolatrice”.

Quando aveva trent’anni fu coinvolto in un incidente: i cavalli che trainavano la sua carrozza finirono oltre il parapetto di un ponte. Da quel tragico incidente pascal prese la netta decisione di abbandonare la scienza e la matematica per dedicare tutte le sue energie alla teologia.

Pascal muore giovane, a soli 39 anni, a causa di una malattia che lo ha perseguitato fin da bambino. Trascorre gli ultimi anni della sua vita come un asceta, trascorrendo le sue giornate a meditare, a pregare e a scrivere.

Condivido alcune frasi di Pascal tratte da “Pensieri”, frasi divenute celebri per la loro profondità spirituale.

 Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera. Che fatica per l’uomo, soprattutto nel nostro tempo, a raccogliersi, a rientrare in se stessi a fare l’esame di coscienza, a vivere minuti di silenzio nella propria stanza senza guardare i dispositivi da cui sempre più dipendiamo. Se tutta la nostra infelicità dipende dal non riuscire a vivere questo raccoglimento, potremmo dire che la nostra felicità dipende dal saper fare … l’esame di coscienza.  

 Dio non costringe nessuno a credere. Infatti c’è luce sufficiente per chi vuol credere; ma c’è buio sufficiente per chi non vuol credere. La libertà è il dono più grande che Dio ci ha fatto. Ma è anche una grande responsabilità. Liberi di scegliere se credere o no, liberi di scegliere tra la luce e i buio. Continua la lettura →



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