Parrocchia e Oratorio San Giuseppe, Dalmine (BG)

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L’alfabeto della Parrocchia: N come NOVISSIMI

Un tempo questo era uno dei cavalli di battaglia preferiti dai tonanti predicatori nei quaresimali o nel mese di novembre per il triduo dei defunti. Oggi devo confessare che, a parte le riflessioni nei funerali, sono veramente rare le occasioni in cui si parla dei Novissimi.

Che cosa sono? Essi sono la morte, il giudizio, l’inferno ed il paradiso.

La parola “novissimi” significa letteralmente “le cose ultime”, cioè ciò che, secondo l’annuncio del catechismo cattolico, succederà agli uomini alla fine della loro vita terrena.

Dei quattro Novissimi il primo corrisponde all’unica realtà certa che succederà a ciascuno di noi: la morte. Ma per quanto riguarda il giudizio, l’inferno e il paradiso dobbiamo ammettere realisticamente e con sofferenza che in gran parte, anche fra noi cristiani, c’è molto smarrimento, confusione e perplessità. Forse c’è anche parecchia delusione che corrisponde alla mancanza di luce rispetto al futuro ultimo, mancanza che forse dipende dal “relativismo” intellettuale e morale che mette oggi a dura prova molti cristiani tentati dall’ateismo e da una visione della vita e della morte sempre più vaga.

Dovremmo avere il coraggio e la pazienza di ricominciare da capo, dai preamboli della fede fino ai “novissimi”, con esposizione chiara, documentata, soddisfacente, come affermava  40 anni fa san Giovanni Paolo II.

Parlare oggi della morte, della propria morte e del destino che ci attende è la cosa più intelligente che possiamo fare. Dal senso che diamo alla nostra morte ne deriva il senso della nostra vita. Dopo la morte c’è il nulla o il tutto? Dalla risposta a questa domanda fondamentale ne deriva uno stile di vita, una scelta di vita. Cosa c’è di più importante?

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo al numero 1020: “Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna”.

Questo orientamento emerge nel testo di quella bellissima preghiera che il sacerdote pronuncia sul morente prima del definitivo distacco. «Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che è morto per te sulla croce, nel nome dello Spirito Santo, che ti è stato dato in dono; la tua dimora sia oggi nella pace della santa Gerusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli angeli e i santi. Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla polvere della terra. Quando lascerai questa vita, ti venga incontro la Vergine Maria con gli angeli e i santi. Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per tutti i secoli in eterno».

Un uomo, osserva G. Penati, che vive senza la speranza in un futuro ultimo e nel convincimento conseguente di non dover rendere conto a nessuno alla sera della sua vita, cade nelle fauci della tigre cinica. Oggi diviene sempre più palese la “crisi” dei valori e delle fedi moderne, per l’offuscarsi dell’orizzonte di senso: «è la nascita di un cinico mondo senza speranze, senza futuro e sembra portare in sé i germi della sua stessa fine».

Allora sapere e credere che dopo la nostra morte ci sarà un giudizio e ci sarà per noi il paradiso significa vivere l’oggi con una luminosa prospettiva di speranza.

Come cristiani abbiamo soprattutto bisogno di “sapere” e di “credere” verso dove siamo diretti. Altrimenti siamo costretti a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte.

Don Roberto

 



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